Un denso memoir dove all’indagine sulla scomparsa del padre si accompagna una dolorosa ricerca di sé e un omaggio alla storia ferita dell’intero popolo libico. Nel libro Il ritorno (Einaudi, pp. 248, euro 19, 50), traduzione di Anna Nadotti, Hisham Matar ripercorre la storia di Jaballa, il padre, ex militare e diplomatico tra i maggiori leader dell’opposizione democratica al regime di Gheddafi, inghiottito dalla prigione libica di Adu Salim, dopo essere stato arrestato al Cairo nel 1990 e di cui la famiglia ha perso ogni traccia da oltre vent’anni.
Scrittore e intellettuale affermato, già autore di due romanzi di successo, Nessuno al mondo (2008), e Anatomia di una scomparsa (2011), entrambi Einaudi, allo stesso modo incentrati sulla relazione figlio-padre, Matar riflette sulla figura del genitore scomparso quando lui aveva solo 19 anni ma che è stato da sempre al centro della sua attività narrativa come del suo impegno contro il regime libico, misurando questa sorta di presenza-assenza attraverso un viaggio nei luoghi e nella storia della Libia. Il «ritorno» che si compie nella primavera del 2012, reso possibile dalla caduta di Gheddafi e dalla vittoria dei movimenti di protesta, diventa l’occasione per tessere, come in un diario a un tempo intimo e collettivo, presente e passato, riflessioni sull’impegno politico, il sacrificio e l’esilio, ma anche sulla vita, la morte, l’amore e l’arte. Hisham Matar sarà tra gli ospiti di Incroci di Civiltà, il festival internazionale di letteratura che si apre domani (29 marzo) a Venezia. Sabato 1° aprile, alle ore 16, incontrerà i lettori all’Auditorium Santa Margherita.
 Nel romanzo «Il ritorno» lei riflette sulla dinamica della memoria: i ricordi non sono qualcosa di fisso, interagiscono con il nostro presente in continua evoluzione. Dopo i suoi primi due libri, si è in qualche modo riconciliato con la Libia e con il dolore per la scomparsa di suo padre?
Trovo che una delle cose più interessanti della letteratura sia l’aver a che fare con il funzionamento della coscienza e il suo rapporto con il tempo. In particolare, ogni volta che scriviamo guardando al futuro dobbiamo fare anche i conti con il passato, indagare ed espandere il rapporto che può esistere tra la memoria e il presente. Se conosciamo qualcuno o vediamo qualcosa, si raccolgono nuovi elementi in quella sorta di «banca dei ricordi» che ci portiamo dentro e che ci servirà ad analizzare il futuro. Rispetto a mio padre, e alle vicende libiche i miei sentimenti si sono modificati con il trascorrere del tempo. Più che andare oltre il dolore ho saputo situarlo meglio in me. Come scrivo: «Mio padre è morto ed è anche vivo. Non possiedo una grammatica per lui. È nel passato, nel presente e nel futuro».
Mentre all’aeroporto del Cairo attendete l’aereo che vi riporterà in Libia per la prima volta, sua madre le chiede se sta portando con sé anche Suleiman e Nuri, i protagonisti dei suoi due romanzi. Vuol sapere se per lei quel ritorno sta avendo davvero luogo?
Con quella domanda mia madre stava cercando di fare più cose. Rappresentava un tentativo di mettermi a mio agio perché si era accorta della mia emozione. E, soprattutto, mi stava incoraggiando a far sì che io compissi quel viaggio, portando con me tutto ciò che avevo elaborato nel frattempo. Sapeva che custodivo in me il fantasma di mio padre. Mi aveva visto soffrire, chiudermi in me stesso e poi tirare fuori una grande determinazione per sostenere le campagne internazionali legate al caso di mio padre e alla sorte toccata agli oppositori di Gheddafi. E come, allo stesso modo, avessi fatto di tutto ciò il cuore del mio lavoro di scrittore. Perciò, intuiva quale significato decisivo avesse per me quel ritorno.
Malgrado il dolore provato lei non sembra rimproverare suo padre per il fatto di aver anteposto, per certi versi, la Libia e il suo impegno politico ai suoi affetti. È così?
Ancora oggi, non sono così sicuro di cosa io provi nei suoi confronti. A volte, sconto un sentimento intriso anche di rabbia: mio padre avrebbe potuto trovare uno scopo nella vita stando accanto a noi e basta. Ma non riesco comunque a incolparlo per come sono andate le cose. E questo anche per un motivo specifico: l’uomo che sono lo devo in gran parte a mio padre. Nella società conservatrice in cui sono nato e cresciuto, i padri tendono a porre sui propri figli delle aspettative irragionevoli. Al contrario, come genitore ha sempre celebrato i miei momenti di ribellione, anche verso di lui. Per quanto dolore abbia provato per la sua perdita, ho sempre sentito anche una grande solidarietà nei suoi confronti: è scomparso per seguire quella stessa libertà che mi ha insegnato a mettere al centro delle mie scelte.
«Cosa fai quando non puoi partire e non puoi tornare?». In questa immagine, che compare nel libro, è racchiusa la condizione dell’esilio, il suo significato più profondo?
Mi sono sentito a lungo un esiliato dal mio paese, oggi non è più così e questo sia perché posso tornare fisicamente in Libia, sia perché quando lo ho fatto per la prima volta, dopo decenni, è come se fosse riemerso tutto ciò che avevo elaborato nel corso del tempo, in Europa e negli Stati Uniti, in relazione a quella distanza, a quella condizione. Con Il ritorno ho cercato di fare i conti fino in fondo con ciò che resta ancora, o meno, in me di questo duraturo esilio.
Dopo aver sostenuto nel 2011 il movimento insurrezionale che ha deposto Gheddafi, e che fu parte delle primavere arabe, oggi come valuta la condizione del suo paese?
Per poter capire il presente e tutte le contraddizioni che porta ancora in sé, bisogna considerare la natura specifica del regime che Gheddafi ha diretto per ben 42 anni e che ha impresso un’impronta indelebile sulla società libica. Rispetto allo spirito e alle aspettative create dalla rivoluzione, la realtà odierna del paese continua ad assomigliare in modo impressionante alla situazione che la ha preceduta. Si è trattato di un fenomeno unico che non rispondeva a un’ideologia politica coerente, il «modello» da seguire è stato di volta in volta Cuba piuttosto che Dubai. Tutto si concentrava solo sul controllo sistematico della popolazione. La maggioranza delle persone viveva in uno stato di ansia permanente perché non sapeva mai cosa si sarebbe potuta aspettare. Era tutto instabile e precario, l’ombra della polizia politica si stendeva ovunque. Il potere è stato usato per così tanto tempo come mezzo per ridurre al silenzio, espropriare e umiliare le persone che ha reso fragile e divisa la società libica, ne ha minato lo spirito e la capacità di definirsi collettivamente. E questo si vede ancora oggi.
Ma le aspettative create dalla caduta del tiranno hanno trovato conferma?
Proprio per ciò che ho detto fino a ora, la rivoluzione del 2011 ha rappresentato di per sé un evento straordinario: all’improvviso migliaia di giovani, donne e uomini si sono battuti per poter cambiare le cose e hanno messo in gioco le loro vite per farlo. È vero, oggi la situazione è complessa, continua a pesare sulla Libia la maledizione del petrolio che ha da sempre prodotto rapporti parassitari con i paesi confinanti, e con l’Europa e gli Stati Uniti, e c’è anche molta corruzione tra i libici stessi, ma sono comunque ottimista. Il popolo libico ha messo fine al regime di Gheddafi e sta cercando di superare anche l’eredità velenosa di quel passato per costruire un paese democratico e una vita dignitosa per tutti. Solo dieci anni fa tutto questo sarebbe stato semplicemente impensabile.
Lei è nato a New York nel 1970 quando suo padre lavorava alla legazione libica all’Onu e vive tra Londra e gli Stati Uniti. Che effetto le fa sapere che, in base al «muslim ban» di Trump, i cittadini libici rischiano di non poter entrare più in America?
Come sempre, una iniziativa del genere ci racconta molto più di chi la propone che non di chi viene messo al bando. Mi sembra che in molte parti del mondo si stia flirtando apertamente con il fascismo. E questo non riguarda solo gli Stati Uniti. Succede in Russia, in Gran Bretagna, in Francia.
In tanti paesi, ciascuno con la propria modalità, si sta concedendo pericolosamente sempre più spazio a un linguaggio del rifiuto e dell’odio. È preoccupante: gli esiti potrebbero essere ancor più terribili.