Proprio mentre a Roma ha inizio Più libri più liberi, fiera nazionale della piccola editoria, a Guadalajara, capitale dello stato messicano di Jalisco, sta per chiudersi la Feria Internacional del Libro, imponente manifestazione che si è affermata come l’appuntamento più importante per l’editoria di lingua spagnola e che, in poco più di una settimana, ospita seicentocinquanta scrittori, almeno duemila editori, e poi agenti letterari, distributori, traduttori, nonché quasi ottocentomila visitatori: e tutto questo in un paese dove i libri, come ha fatto notare Elena Poniatowska, per troppi cittadini sono ancora un oggetto di lusso. Creata e organizzata ventinove anni fa dall’università locale, la Feria è una immensa vetrina della produzione editoriale, ma anche un avvenimento culturale con un denso programma di seminari, tavole rotonde, incontri, dibattiti e convegni capaci di testimoniare della ricchezza di letterature che appartengono a culture diverse, e tuttavia sono comprese in un’ area linguistica in continua evoluzione, com’è oggi quella dello spagnolo «transnazionale».

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Hernán Ronsino

L’Argentina al centro

Un’eco di questo effervescente panorama – sempre più presidiato e gestito da giganteschi gruppi stranieri come Penguin Random House, che lo considerano particolarmente appetibile, ma popolato anche da una costellazione di editori indipendenti e dal fitto pulviscolo della microeditoria artigianale – arriva da qualche anno anche a Più libri più liberi, dove l’Istituto Italo-Latino Americano usa invitare alcuni scrittori tradotti in italiano, per farceli conoscere più da vicino. E mai come quest’anno, bisogna dirlo, la scelta risulta stimolante, grazie alla proposta di scritture profondamente diverse, difficilmente riunibili sotto l’ombrello di un’ipotetica e sempre dibattuta identità «continentale» (della quale, tra l’altro, gli scrittori invitati discuteranno durante un incontro collettivo), ma proprio per questo esemplificative della varietà e della vitalità delle tante letterature iberoamericane, come dell’impossibilità di applicare ai suoi autori etichette stereotipate e riduttive.

Per cominciare, arrivano dall’Argentina, paese che ha appena vissuto la vittoria elettorale (sia pure di stretta misura) di un’inquietante destra ultraliberista, due autori interessanti come Marcelo Figueras ed Hernán Ronsino. Il primo, poco più che cinquantenne, oltre a una lunga esperienza di giornalista e di sceneggiatore cinematografico possiede anche un sicuro talento di narratore (in fiera presenterà Aquarium, pubblicato quest’anno dall’Asino d’oro e ambientato nell’Israele della seconda Intifada) che si dispiega interamente nel nuovissimo El rey de los Espinos e gli consente di rinnovare radicalmente un genere quasi estinto come il romanzo d’avventura, attingendo ampiamente, com’è sua abitudine, ai materiali della cultura pop per raccontarci la storia di un giovanissimo becchino che, dopo aver seppellito un celebre autore di fumetti (trasparente alter ego del desaparecido e indimenticato H. G. Oesterheld), scopre la fuga dei suoi personaggi da «strisce» in cui non possono più tornare: un affascinante delirio che speriamo di vedere presto tradotto.

Di Ronsino, professore all’Università di Buenos Aires, in Italia conosciamo gli ultimi due volumi (Glaxo pubblicato da Meridiano Zero, e Biografia di un albero, uscito quest’anno presso Gran via) della sua cosidetta trilogia pampera, ambientata nella piccola città di provincia dov’è nato nel 1975, Chivilcoy: un autore fortemente evocativo, che crea con lenta sicurezza narrazioni fatte di minuzie quotidiane, di assenze, di fili incrociati, fino a ricomporre una memoria personale quanto collettiva, quella di un’epoca che ha segnato con silenzi e cupe reticenze una generazione di scrittori latinoamericani, allora bambini e ancora oggi intenti a decifrare, un frammento dopo l’altro, l’enigma di quegli anni, vissuti in un continente che pareva, come qualcuno ha scritto, «un parco tematico di dittature».

Anche il quarantenne Alejandro Zambra, professore universitario, poeta, ottimo saggista e romanziere cileno tra i più tradotti e conosciuti all’estero (a Più libri più liberi presenta I miei documenti, una raccolta di racconti pubblicata da Sellerio) appartiene a quella generazione, e anche lui, in quasi tutte le sue opere di narrativa, fa i conti con il passato e con la costruzione della memoria, in un modo sottile che intreccia alla finzione temi autobiografici, dettagli intimi, ricordi e disvelamenti, come accade in Modi di tornare a casa (Mondadori, 2013), raffinato esercizio di autoficción.

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Julián Herbert

 

Figure evocate

Questo modo di raccontare il mondo filtrandolo attraverso le esperienze più personali e private potrebbe sembrare proprio anche della messicana Valeria Luiselli, poco più che trentenne, cresciuta in giro per il mondo e oggi residente a New York, dove tiene corsi di letteratura e scrittura creativa, che nella fiera romana parlerà del suo primo romanzo, pubblicato nel 2013 da La Nuova Frontiera. Ma dopo aver letto i primi capitoli di Volti tra la folla, si scopre che Luiselli è fatta di un’altra pasta, perché presto la storia si stacca dalla quotidianità della giovane madre che si destreggia tra scrittura e bambini piccoli, ed evoca invece il personaggio (o il fantasma?) del poeta Gilberto Owen, stabilendo un legame con questo artista geniale e alcolizzato, esponente dell’avanguardia messicana negli anni ’20 e ’30. Una storia oscura, un dialogo tra vita e morte che non somiglia in nulla a Historia de mis dientes, il nuovo romanzo di Luiselli (accolto con entusiasmo in Germania e negli Usa, tra non molto lo vedremo anche in Italia), una sorta di gioco irriverente e bizzarro in cui il banditore d’aste Carretera vende non tanto gli oggetti (tra i quali una quantità di denti «celebri»), quanto le storie che li riguardano, e che costituiscono il loro autentico e unico valore.

Luiselli, insieme a un discreto numero di nuovi autori, fa parte di quello che si potrebbe definire un vero «rinascimento» della letteratura messicana contemporanea, alla cui gloriosa storia si aggiungono oggi nomi ancora poco conosciuti da noi, ma dei quali sentiremo molto parlare, sempre che si trovino editori disposti a pubblicarli e che non siano del tutto estinte la curiosità e la propensione all’incontro con narrazioni complesse e fuori dagli schemi, un tempo tipiche dei lettori forti. Uno di questi autori, giustamente considerato tra i migliori del suo paese e di tutta l’America Latina, è Julián Herbert, che arriva a Più libri direttamente dagli incontri di Guadalajara, ai quali ha partecipato in veste di poeta, romanziere e studioso.

Herbert, nato nel 1971, è infatti un artista poliedrico, che riunisce in sé identità diverse: in primo luogo quella di uno dei più importanti poeti messicani di questi anni, la cui vasta produzione continua a sperimentare forme nuove (non ultima la videopoesia), poi quella di critico e saggista, ma anche di musicista pop, guida e vocalist di una band chiamata Madrastras, e infine quella di scrittore straordinario – l’aggettivo non è esagerato – che in fiera parlerà del suo romanzo Canción de tumba, uscito in italiano presso Gran via col titolo di Ballata per mia madre.

Tradotto in diversi paesi e premiato in Spagna con il Jaén de Novela, Canción de tumba è un esempio riuscito e perfetto di autoficción, che cerca, in parallelo, il senso della scrittura e del narrare e quello del rapporto con una madre prostituta, instabile, irresistibile, orgogliosa e bugiarda, ormai vicina alla morte. Una storia terribile, cruda, amaramente sarcastica, gonfia di eccessi e autodistruzione, ma che tuttavia procede verso una maturità dolorosa e pacificata.
Una storia da leggere, per chi non la conosce, e da leggere di nuovo, per chi l’ha già fatto, in attesa della traduzione del nuovo romanzo di Herbert, La casa del dolor ajeno, appena pubblicato in Messico da Random House, che sviluppa uno degli aspetti più interessanti di Canción de tumba, quello dell’analisi storica e sociale (rigorosamente condotta, però, secondo le ragioni della letteratura) presente nelle pagine sulla repressione del movimento dei ferrovieri negli anni ’50, e che allo stesso tempo conferma l’intenzione e la capacità dell’autore di cancellare i confini tra generi letterari per creare qualcosa di sempre diverso ed esteticamente audace.

Teatro della crudeltà

Per l’argomento, La casa del dolor ajeno potrebbe far pensare a un romanzo storico, dato che parla di un pogrom avvenuto in Messico nel 1911, quando, pochi mesi dopo l’inizio della rivoluzione, trecento immigrati cinesi vennero selvaggiamente uccisi e sepolti in una fossa comune. Ma questa vicenda del passato, ancora tutta da chiarire, diventa rapidamente storia di oggi, in cui si fondono xenofobia, razzismo, odio viscerale contro chi è percepito come troppo diverso per poter respirare la stessa aria dei suoi massacratori. La ricerca d’archivio, i viaggi nei luoghi del «piccolo genocidio», i colloqui con coloro che oggi ci vivono, il ricordo delle storie sentite da bambino, il teatrino dell’orrore in cui il Messico si è trasformato e che affonda le radici nella violenza di un tempo… tutto questo si fonde per dare vita a un testo originale, brillante e spietato, che è in parte reportage, in parte cronaca, in parte romanzo, e che suona terribilmente familiare anche alle nostre orecchie. Dal Messico raccontando una storia remota che però ci riguarda tutti, Herbert parla anche di noi, e lo fa da scrittore autentico: vale la pena di conoscerlo, di ascoltarlo.