«A partire dai primi anni Settanta, e senza soluzione di continuità fino ad oggi, il femminismo culturale e politico non ha mai cessato di produrre una sofisticata teoria sul film (e quindi sullo spettatore/spettatrice), con lo scopo di decostruire quei meccanismi sulla base dei quali il sistema cinematografico industriale e patriarcale si è costruito e installato: l’obiettivo è sempre quello di rivelare le differenti modalità di percezione delle categorie di genere.» Così scrive il programmatore e storico del cinema Federico Rossin, per presentare il programma delle sue lezioni di storia alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro di quest’anno.

Ora, cosa intendere con cinema femminista, ieri come oggi? Il ciclo di film che si avrà la fortuna di vedere si basa sull’assunto teorico classico – e sempre poco ricordato a dovere – che questo modo di fare immagini include, nel suo senso originario, un ripensamento del linguaggio, teso verso una ricerca continua. In modo schematico, ma non per questo falso: femminismo uguale sperimentazione. A questo proposito, non si può non ricordare il contributo alla riflessione dato da Laura Mulvey con il suo Visual Pleasure and Narrative Cinema (1973), che rimane un’opera capitale da leggere e rileggere per entrare nel merito della questione.

FILM E TEMI
I film del programma a cura di Rossin sono i seguenti: Soli-trac (Gina Pane, 1968); Deux fois (Jackie Raynal, 1968); Saute ma ville (Chantal Akerman, 1968); The Song of the Shirt (Sue Clayton e Jonathan Curling, 1979); Vertical Roll (Joan Jonas, 1972); Semiotics of the Kitchen (Martha Rosler, 1975); Art Herstory (Hermine Freed, 1974); Sigmund Freud’s Dora. A Case of Mistaken Identity (Jay Street Collective, 1979); S.C.U.M. Manifesto (Carole Roussopoulos e Delphine Seyrig, 1976); Rapunzel Let Down Your Hair (Susan Shapiro, Esther Ronay e Francine Winham, 1978); Technology/Transformation. Wonder Woman (Dara Birnbaum, 1978-79).

I temi che danno ordine alla selezione risultano quattro: solitudine femminile (Pane, Raynal, Akerman); storia (il capolavoro di Clayton e Curling); critica delle immagini (Jonas, Rosler, Freed, Jay Street Collective); guerrilla media (le autrici rimanenti).

Allo stesso tempo però, interrogato in merito, Rossin sembrerebbe propenso a mettere insieme terzo e quarto tema, così da definire tre assi portanti nel percorso: autobiografismo e corpo (prima sezione); storiografia dal basso attraverso la pratica del re-enactment, quindi della rievocazione (seconda sezione); analisi critica della messa in immagine e degli apparati mediatici (come anticipato, terza e quarta sezione).

Nel complesso si potranno quindi notare approcci diversi in relazione tra loro, dal momento che – per esempio – si va da alcuni classici come i film di Akerman e Rosler, figure significative di ambiti tangenti al campo del cinema sperimentale (cinema d’autore la prima; arte contemporanea la seconda), ad azioni diciamo più anarchiche come quelle filmate da Roussopoulos e Seyring (l’acronimo S.C.U.M. sta per Society for Cutting Up Men). In mezzo tante gemme preziose, fra cui – per necessità di sintesi – ci si limita a segnalarne una, The Song of The Shirt, in cui si potrebbero idealmente far confluire tutte le tematiche del programma. Si tratta di un film incredibile per concezione e sviluppo (e non solo). L’impressione è che se Sue Clayton si fosse chiamata, che so, Rossellini, e se il cinema britannico di qualità non fosse stato promosso e pubblicizzato in maniera diffusa solo attraverso i vari Ken Loach o Mike Leigh, magari The Song of the Shirt sarebbe stato il punto di rottura – e quindi di origine – di una tradizione di pensare e filmare la storia ora naturalmente condivisa.

NO ACCADEMISMI
Se si ha una familiarità con il mondo accademico, a scorrere molti nomi delle autrici dei film in programma – per esempio, Akerman, Birnbaum, Jonas, Pane, Rosler – si può senz’altro arrivare alla conclusione che, in fondo, oggi, certi ambienti universitari abbiano iniziato ad occuparsi in modo analitico del loro lavoro. Magari qualcuno potrebbe dire non in Italia, ma l’osservazione – credo – non verrebbe presa per sbagliata.

Tuttavia, bisognerebbe aggiungere che l’appropriazione accademica, se da un lato qualifica il proprio oggetto di studio come patrimonio culturale, dall’altro rischia sempre di annullarne le potenzialità di rottura critiche, sociali, politiche. La cosa in sé non sarebbe nemmeno strana, dal momento che tali potenzialità spesso investono certi fondamenti dello stesso sistema accademico. A tal proposito, Rossin parla di una «sterilizzazione» universitaria delle «ferite» aperte dalla teoria femminista, una sorta di chiusura del senso. Come uscirne dunque? Un punto di partenza potrebbe essere: considerare questi film come una lezione di dialettica antimoderna, senza conciliazioni, quindi antica e – magari – futura allo stesso tempo.