La periodica necessità di ritradurre alcune opere – specie quelle che lo stesso processo di trasposizione interlinguistica ha contribuito a includere nel canone della letteratura mondiale – è stata interpretata dalla critica come una vera e propria cartina di tornasole del rapporto tra l’originale e le sue riscritture. In questa dinamica, il testo originale viene considerato il depositario, al contempo paradossalmente storico e atemporale, di un’immutabile intenzione di significato (l’intentio operis di cui parlava Umberto Eco) che la traduzione tenta di riattualizzare, procedendo per tentativi ed errori verso la «verità» del testo. Le ritraduzioni sarebbero dunque indispensabili, dal momento che ogni versione corre il rischio di divenire anacronistica col passare del tempo. Non solo: se il testo originale resta uguale a se stesso, così non è del corpus delle conoscenze che attorno ad esso vanno accumulandosi, tanto nel contesto culturale in cui è stato concepito, quanto in quelli nei quali le traduzioni lo hanno trasmigrato.

Raccontato seguendo il pennello
È in questo senso che può venire letta la preziosa operazione editoriale recentemente realizzata da Adelphi su uno dei classici moderni della letteratura giapponese: il racconto La danzatrice di Izu («Izu no odoriko») di Kawabata Yasunari, riproposto nella vivida traduzione di Gala Maria Follaco e corredato di un importante apparato critico a opera di Giorgio Amitrano (pp. 157, € 12,00).

A quindici anni di distanza dalla curatela del fondamentale Meridiano dedicato al primo Nobel giapponese per la letteratura, Amitrano torna a proporre al pubblico italiano una piccola pietra miliare degli studi su Kawabata che contribuisce a contestualizzare in maniera più precisa il racconto – pubblicato nel 1926 – nell’evoluzione della lunga carriera artistica dello scrittore, prolifico fino alla sua scomparsa nel 1972.
La nuova traduzione della Danzatrice non si sostituisce alla precedente a causa della sua obsolescenza, ma nell’economia del progetto editoriale voluto dalla Adelphi, garantisce al testo nuove prospettive interpretative; insieme al racconto, infatti, il volumetto include anche la traduzione di due conferenze tenute da Kawabata alla University of Hawaii nel 1969 sul tema della bellezza. I due testi riprendono e approfondiscono la dissertazione sull’estetica giapponese proposta in occasione del conferimento del Nobel, un anno prima; qui, però, le riflessioni di Kawabata sulla letteratura classica del suo paese si fondono con le visioni nostalgiche di un Giappone ormai lontano che sopravvive nelle sue raffinate tradizioni con una scrittura meno controllata e stigmatizzante che nel discorso di Stoccolma.

Come nota Amitrano nel saggio critico che chiude questa edizione della Danzatrice, nei suoi discorsi Kawabata «racconta “seguendo il pennello”, come nella tradizione dello zuihitsu, un genere che gli era particolarmente congeniale perché in sintonia con la sua tendenza al frammento, la poetica dell’incompiutezza e il lirismo rapsodico». I due saggi costituiscono dunque una summa imprescindibile della poetica dell’autore, frutto della stratificazione di intense attività di ricerca estetica e letteraria, e che solo apparentemente rifugge dal modernismo del primo Kawabata. Basti pensare all’immagine che apre il primo saggio – la bellezza dei bicchieri di vetro che brillano al sole sulla terrazza di un albergo a Honolulu, percepita con insolita intensità – per ritrovare elementi dello sperimentalismo degli esordi: la distanza tra soggetto che percepisce e oggetto è azzerata dalla parola poetica, così come voleva lo Shinkakuha (Scuola della nuova sensibilità), il gruppo modernista di cui Kawabata fu parte attiva negli anni Venti.

A quegli anni appartiene anche il racconto lungo La danzatrice di Izu, che nel suo impianto tradizionale e nelle scelte narrative sembra discostarsi dallo sperimentalismo di altre opere del periodo; a un’analisi più attenta – che il lettore di questa edizione potrà condurre grazie allo studio di Amitrano in appendice – il testo rivela però interessanti spunti che vanno al di là di quella che è divenuta in Giappone la storia d’amore adolescenziale, puro per antonomasia.

Nessun approdo al desiderio
Il viaggio nella penisola di Izu che il giovane studente protagonista in parte condivide con un gruppo di attori girovaghi – considerati per questa loro attività alla stregua di paria – è costellato da immagini vivide e costruito su una dinamica che alterna immagini «d’acqua e di fango», come ebbe a scrivere in una sua lettura della Danzatrice Mishima Yukio, che di Kawabata fu allievo e grande sostenitore. L’attrazione che il protagonista prova per la giovanissima ballerina della compagnia non si trasforma mai in concreto desiderio e in verità neppure in sentimento amoroso; le immagini con le quali Kawabata costruisce scorci dell’educazione sentimentale di uno studente di buona famiglia vivono del rapporto dialettico con quelle a lui antitetiche di vecchiaia, malattia, esclusione sociale, impurità.

Il romanticismo delle statue raffiguranti uno studente in uniforme e la sua amata giovane ballerina che costellano oggi la penisola di Izu e attraggono visitatori partiti da Tokyo per le località turistiche con un treno veloce iconicamente denominato «Odoriko», poco o nulla hanno a che fare, in verità, con il testo di Kawabata, che fa parte al tempo stesso del canone della letteratura mondiale e della nutrita schiera di quei libri – direbbe il critico francese Pierre Bayard – di cui tutti parlano, ma che nessuno ha letto.