Un viluppo d’amore incestuoso, ricalcato sull’Edipo re di Sofocle, inghiotte uno dopo l’altro i personaggi dell’ultimo romanzo di Orhan Pamuk, La donna dai capelli rossi (traduzione di Barbara La Rosa Salim, Einaudi, pp. 266, euro 19.50) sciogliendo i nodi dell’intreccio solo in prossimità dell’epilogo, quando al lettore verrà rivelato come il libro che ha per le mani sia stato scritto, innanzi tutto, per argomentare la difesa al processo per parricidio di cui è imputato il personaggio di nome Enver, figlio di una clandestina notte d’amore. A consumarla, l’allora diciassettenne Cem, protagonista del romanzo e sua voce narrante, e la teatrante Gülcihan, quasi il doppio degli anni di lui, che scelse un giorno di farsi più seducente tingendosi i capelli di rosso, e che prima di concedersi da Cem era stata a lungo l’amante del padre di lui.

Satura di coincidenze e di consequenzialità strette come le maglie del destino, la trama degna di un feuilleton è scritta dal figlio assassino per ricostruire la cornice e la genesi del delitto, ma viene affidata alla voce narrante di suo padre, che all’epoca in cui tutto ebbe inizio, la metà degli anni ottanta, era un ragazzo intento a mettere da parte qualche soldo per l’università aiutando il suo mastro a scavare un pozzo.
Come già nel romanzo precedente, La stranezza che ho nelle testa, di cui era protagonista un povero venditore ambulante, le pagine migliori sono quelle in cui si realizza l’empatia di Pamuk con lo sforzo fisico richiesto da un umile lavoro: qui, l’immedesimazione nei gesti monotoni e illusoriamente ostinati che, giorno dopo giorno, accompagnano lo scavo nella speranza di scoprire una falda acquifera in fondo al pozzo. Ma appena una pausa vacanziera favorisce l’incontro del ragazzo con la donna dai capelli rossi, scocca la scintilla che accende in Pamuk il postmoderno messaggero d’amore e, come già nel Museo dell’innocenza, tutto il repertorio della seduzione viene dispiegato nel romanzo, fino a trovare legittimazione nella tragedia più fondativa dei nostri travagli psichici, L’Edipo re.
Ripercorriamo, insieme all’autore – in visita a Milano – alcuni passaggi del romanzo.

Lo sforzo estenuante sostenuto dal giovane protagonista Cem e dal suo mastro per arrivare a trovare l’acqua, ricorda il famoso detto turco che paragona il lavoro dello scrittore alla pretesa di «scavare un pozzo con un ago». Ci ha pensato mentre scriveva? Perché, in effetti, tutta questa ostinazione dei protagonisti nello scavare il pozzo, sembrerebbe avere, sì, una valenza realistica, ma anche alludere a altro…
Sì, ho pensato al detto turco, certamente, e ho costruito il romanzo in modo da farlo funzionare su due livelli, uno realistico e l’altro allegorico. I dettagli veritieri sono basati sul fatto che quando stavo per finire di scrivere Il libro nero, verso la fine del 1989, andai sull’isola di Heybeliada a un’ora da Istanbul, e lì, su un appezzamento di terra abbandonato, vidi due uomini che scavavano un pozzo. Io stavo sempre da solo in casa a scrivere, così poco a poco uno dei due cominciò a venire a chiedermi se avessi dell’acqua o se potesse attaccarsi alla elettricità, e via via nacque tra noi una qualche forma di amicizia. Man mano che il pozzo veniva scavato, i due uomini scomparivano alla vista, finché davanti ai miei occhi la piatta landa della terra tornò a essere deserta. Dopo circa un mese confessai di essere uno scrittore e chiesi ai due uomini di intervistarli e di registrare le loro storie. Dunque, il punto di partenza del libro è del tutto realistico, ma poi si è allargato a comprendere le questioni metafisiche che si affacciano alla mente di un adolescente, la descrizione della curiosità che anima il ragazzo e il suo venir meno, la rappresentazione del rapporto tra l’ingenuità di Cem e la saggezza del suo mastro. Mentre mi preparavo a strutturare il romanzo alternando significati reali e allegorici, pensavo per un verso a Padri e figli di Turgenev e per altro verso alle descrizioni di Freud.
Sulla scena del romanzo compaiono, per un breve lasso di tempo, due donne con i capelli rossi: una vanta il suo colore naturale, l’altra, che è la vera protagonista del libro, rivendica la scelta di ricorrere a una tintura. Non a caso, poche pagina più tardi, dirà che «la disputa tra originalità e contraffazione è una di quelle questioni per cui vanno matti i turchi». Quale ruolo hanno le due donne nella economia del romanzo e in quale relazione stanno con l’idea di questa contrapposizione tra vero e finto?
Intendevo sottolineare che il più delle volte, ciò che importa non è la autenticità dei fatti o la loro falsificazione, bensì l’intenzionalità che ha guidato i nostri gesti. È chiaro che i condizionamenti culturali incidono sulla interpretazione dei fatti, e sulla accentuazione di un aspetto o l’altro delle questioni. Nell’Europa del nord una donna con i capelli rossi viene di solito associata a un carattere rabbioso, alla facile perdita del controllo, mentre nella parte del mondo dove io abito non è certo frequente che questa tinta sia naturale e, allora, dietro la scelta di tingersi ecco che di nuovo ricompare l’associazione con tutta una serie di luoghi comuni che ne fanno un indice di malessere, di rabbia, di facili costumi. Erano queste costruzioni culturali, così determinanti, ciò che mi interessava mettere in risalto. La concezione medievale del personaggio si fonda sulla ripetitività di un carattere sempre uguale, unita al fatto di abbandonarsi fideisticamente nelle mani di dio; mentre, la modernità, soprattutto dopo l’esistenzalismo, prevede un personaggio artefice del senso che lo guida e dunque del suo destino. È chiaro che in quanto scrittore preferisco inventare caratteri capaci di attuare scelte, come lo è la donna che si tinge i capelli di rosso, nonostante tutto ciò che questo colore si porta dietro: non a caso ne ho fatto una teatrante. Ma alle spalle del mio romanzo c’è anche una motivazione politica: cominciai a scriverlo quando erano prossime le ultime elezioni, la situazione in Turchia andava incontro a una grande recrudescenza, aumentava il controllo e diminuiva la democrazia; ma nonostante questo, sempre più persone si preparavano a votare a favore di un leader molto autoritario. Sembrava fosse una sorta di mito, e analizzarlo è uno degli scopi che mi ha spinto a raccontare questa storia.

Lei ha scritto in un suo saggio che i romanzi sono narrazioni aperte ai sensi di colpa, alla paranoia, alla angoscia. Cosa intendeva?
Volevo dire che, in quanto lettore, amo i libri che chiedono di venire indagati, perché leggere vuol dire decodificare segni e simboli, andare alla ricerca di tutti i livelli di significato che il testo nasconde. E anche quando scrivo, ho nella testa e nel cuore questa disposizione paranoica, che mette in moto il processo investigativo. Certo, è più difficile ottenere un romanzo aperto alla paranoia se ci si dilunga in molte digressioni, che possono risultare depistanti: bisogna far capire bene al lettore quale elemento della narrazione possa essere recepito come arbitrario e quali siano i segnali da prendere in considerazione; ma nel caso di una novella contenuta, com’è La donna dai capelli rossi, mi è stato più facile concentrare la tensione psicologica dei personaggi, e evocare il senso di colpa che lei ricordava prima tra gli elementi da me segnalati come ingredienti di un romanzo. Qui, li ho messi in relazione con i miti contenuti nei classici greci e persiani, ai quali i personaggi si rifanno continuamente.
Diversamente da quanto avveniva quando cominciò a scrivere, per esempio nella «Casa del silenzio», dove l’unico personaggio a non parlare con voce propria era quello di una donna, negli ultimi romanzi lei va potenziato i suoi personaggi femminili, che esprimono il loro punto di vista in prima persona. Già nel suo libro precedente, «La stranezza che ho nelle testa», lei dotava Vediha, la sorella maggiore del protagonista, di una voce molto autorevole. Qui, il vero arbitro della vicenda è la donna dai capelli rossi che dà il titolo al libro. Sta sperimentando un nuovo punto di vista?
Sì, man mano che invecchio divento più femminista, e sto cercando di fare del mio meglio per raggiungere quella che è la mia massima ambizione: scrivere un romanzo esclusivamente dal punto di vista di un personaggio femminile, dove una donna parli per voce sola. Vorrei che il risultato fosse tale da indurre i miei detrattori a escludere che lo abbia scritto io. Se diranno: il romanzo può essere solo di una scrittrice donna, e Pamuk l’ha plagiata, mi faranno il più grande dei complimenti. Per ora, non ho raggiunto il mio obiettivo, perché ho sempre paura che, tra le parole che metto in bocca a una donna, qualcosa suoni falso.
In generale, le riesce meglio adottare la prima persona o la terza? Nei suoi romanzi sono presenti, spesso allo stesso tempo, entrambe le strategie narrative.
Dipende: spesso sono nel mezzo di una storia e mi ritrovo a pensare sia in prima persona che in terza. Quando succede comincio a tormentarmi perché la tentazione di cambiare il punto di vista è molto forte; ma poi è la natura della storia a dettermi la possibilità o meno di cambiare voce. Mettiamola così: ci sono volte in cui vorrei proprio essere una persona diversa, per esempio – appunto – una donna, e ce ne sono altre in cui mi limito a desiderare una presa di distanza dal personaggio che sto costruendo. Dopo tanti anni di lavoro, trovo che se un romanzo è lungo e corposo, come lo era La stranezza che ho nella testa, è meglio avere più punti di vista, più persone che parlano dicendo «io». E questo mi viene dall’esempio di Faulkner e di Joyce da una parte, ma anche di Akutagawa, il cui racconto «Nel bosco» è narrato da quattro voci diverse ed è all’origine di Rashomon, il grande film di Kurosawa.

Nelle mani dei suoi personaggi gli oggetti di uso quotidiano diventano contenitori di ricordi, capaci di fare precipitare i personaggi in una grande tristezza quando, maneggiandoli, pensano a chi li possedeva e ora non c’è più. Accadeva nel «Museo dell’innocenza», dove persino una forcina o il mozzicone di una sigaretta diventavano sacri; e succede anche in questa novella, quando dopo la scomparsa di Mahamut in fondo al pozzo, Cem resta a rigirarsi tra le mani le povere cose che entrambi condividevano. Si direbbe che lei facci degli oggetti elementi della narrazione carichi di un pathos speciale. È così?
Quel che mi interessa è vedere cosa resta delle cose quando sparisce l’essere umano, quando la scena è vuota. Allora, a me sembra che si crei una specie di aureola intorno agli oggetti, che io interpreto effettivamente come contenitori delle nostre storie, delle nostre vite.Così è per me, se penso al mio amato pettine che uso da anni, alla mia amata tazzina, o alla penna con cui scrivo i miei romanzi – eccola qui, insieme a quella che ho rubato all’albergo. Tutti gli oggetti che metto nei miei romanzi hanno, in effetti, una risonanza che va al di là della loro fisicità. Il loro ruolo è quello di amplificare l’esperienza dei personaggi e dirci qualcosa di chi li ha posseduti. Il protagonsita del Museo dell’innocenza era nel mezzo di una crisi sentimentale, e mi piaceva che l’intensità del suo malessere si cogliesse soprattutto dalla scelta di maneggiare alcuni degli oggetti appartenuti alla sua fidanzata e altri non toccarli affatto.