Votiamo sperando di sorprenderci. Prendiamo a prestito l’immaginazione di Altan sull’Espresso, per sperare che il risultato elettorale non confermi quello che tutti i sondaggi ci hanno annunciato fino alla nausea in queste settimane: la vittoria a mani basse della destra.

Se la previsione degli esperti è esatta, allora, come si dice, tutte le famiglie felici sono uguali e ogni famiglia infelice lo è a modo suo. È così per la famiglia felice della destra, che pregusta la vittoria e la conquista del potere grazie a un gioco di squadra.

È invece triste il fronte democratico che si presenta agli elettori come un’armata sperduta nel territorio di guerra, con frizioni e competizioni interne sfibranti, stucchevoli, vecchie. E però questo è il nostro argine contro la svolta illiberale che preoccupa anche l’Europa.

Se siamo a questo punto di pesante incertezza sull’esito del voto, lo si deve in buona parte alla mancata alleanza tra il Pd e il M5Stelle, nonostante un sistema elettorale che premia gli accordi tra più partiti piuttosto che la singola forza politica.

Anche per questo grave, esiziale errore, non a caso una parte delusa della sinistra tradizionale voterà, più o meno convintamente, per il M5S (le dichiarazioni di voto di Loredana De Petris e Stefano Fassina sono emblematiche), che con Conte si è costruito se non un’identità, una collocazione convinta dentro il fronte progressista.

Perché il Pd, dopo la distruttiva parentesi di Renzi, ancora non riesce a costruirsi una casa, oscillando tra l’essere un risolto partito governativo di centro (come la fallita alleanza con Calenda e Renzi presupponeva), o una forza di sinistra laburista come viene adombrato dal tardivo e disperato no al jobs act.

Sicuramente il risultato elettorale condizionerà le scelte future, non tanto – o non solo – politiche ma appunto identitarie anche del Pd. E del segretario del partito (già circolano i nomi dei possibili successori).

Dentro questo processo si collocano Articolo1 e Sinistra italiana. Ma se Bersani e Speranza sembrano orientati a rientrare in famiglia, Fratoianni ha scelto di allearsi con i verdi di Bonelli, non per passare la nottata elettorale, piuttosto con una prospettiva strategica: nel panorama politico italiano il voto rossoverde potrebbe segnare una novità, un battesimo. Una percentuale significativa aprirebbe nuovi scenari nella costruzione di un protagonista importante per il cambiamento.

Sulle altre, più o meno piccole forze dell’arcipelago della sinistra, è difficile esprimere un giudizio positivo, soprattutto di fronte a certi affratellamenti come quello tra i comunisti di Rizzo e l’ex magistrato Ingroia, finiti nell’ammucchiata dei sovranisti perfino insieme a esemplari leghisti.

Del tutto diversa è l’alleanza che va da Rifondazione comunista a Potere al popolo, riunita dall’ex sindaco di Napoli De Magistris come personaggio di punta. Una Unione che ha fatto le prove nelle elezioni regionali calabresi ottenendo un incoraggiante 16 per cento, però assai difficilmente replicabile. Il loro futuro, che guarda anche a una possibile intesa con i 5Stelle, dipenderà – ma vale per tutte le formazioni – dall’esito del voto. Se agguanteranno il quorum avranno il vento in poppa per continuare la navigazione.

Resta da vedere quanto peserà nelle urne la guerra d’invasione dell’Ucraina, l’escalation putiniana con la minaccia nucleare, il no all’invio delle armi o il sostegno anche armato alla resistenza del popolo ucraino.

La destra, probabilmente felice e vincente, è divisa al suo interno, e il dosaggio tra vincitori e vinti (Fratelli d’Italia e Lega) ci dirà di chi sarà la leadership, chi guiderà l’Italia nei prossimi anni. Il mix di presidenzialismo, autonomia regionale differenziata e flat tax determinerebbe una involuzione autoritaria, condita con politiche xenofobe e spinte nazionaliste.

Con Giorgia Meloni presidente del consiglio, l’onda nera che avanza in Europa, dalla Svezia alla Spagna, dall’Ungheria alla Polonia riconoscerà nell’Italia il paese-guida, il suo decisivo punto di forza.

Da palazzo Chigi Meloni sarà un riferimento dell’antieuropeismo di marca etnica e sovranista, fungerà da grimaldello per la rottura dell’Unione europea, spostando uno dei paesi fondatori sull’asse di Visegrad. E saranno dolori non solo sul piano umano dei diritti civili, ma anche sul fronte economico, in uno scenario internazionale segnato dall’inizio della recessione e dalla brutale escalation putiniana della guerra.

Le urla della leader di FdI nel comizio di piazza del Popolo, contro le misure anti-covid del ministro Speranza, sono l’ultima goccia di un oscurantismo malamente camuffato dai toni concilianti usati nei talk-show.

Un doppio standard che non deve ingannare nessuno perché da chi alla data del 25Aprile, cuore della repubblica antifascista, vorrebbe sostituire quella del 24Maggio (il Piave mormorò), non possiamo aspettarci altro che rigurgiti facistoidi a stento tenuti a bada dalla furbizia accumulata in decenni di frequentazione dei palazzi del potere.

Del resto se abbiamo avuto un ventennio fascista e, più o meno, un ventennio di egemonia culturale, oltre che politica, berlusconiana, non è per responsabilità di un dittatore o di un tycoon miliardario.

Il fascismo come il berlusconismo hanno formato, trasformato quegli italiani che poi li hanno promossi in capi del popolo unti dal signore. Probabilmente se vincerà Meloni si apriranno le porte a un nuovo immaginario peronista.

In attesa dei risultati, i retroscena degli ultimi giorni hanno disegnato scenari più sfumati: meno foschi rispetto all’onda nera, traballanti sulle percentuali del Pd, favorevoli alla performance pentastellata, meno pessimistici sull’astensionismo. Verificheremo presto come stanno le cose, quale sarà il grado della febbre del nostro sistema politico.

Come scrivevamo all’indomani della crisi di governo, è comunque meglio prepararsi a una lunga marcia delle forze democratiche. Con l’augurio che tornino alle urne tanti ex elettori di sinistra.

Il nostro impegno e il nostro voto sarà dedicato alla ricostruzione di un largo fronte, a ritrovare quella dimensione politica nutrita di passione, ideali e credibilità. E se un tempo non volevamo morire democristiani (e ci siamo riusciti), tanto più oggi non vogliamo morire reazionari e razzisti.