Oggi si vota, con la peggiore legge elettorale della storia repubblicana, un ex novo voluto dal Pd, con il sostegno di Forza italia e della Lega. Peggiore del Porcellum, non offre possibilità di scelta visto che le liste del proporzionali sono bloccate, come anche i candidati ai seggi uninominali incatenati alle finte coalizioni.

Ma l’aspetto paradossale davvero divertente è che nessuno difende la legge e tutti concordano sulla necessità di buttar via il Rosatellum per una nuova trovata con cui sostituire la prima legge elettorale tipo usa e getta. È già pronto un simil governo di scopo per l’occorrenza. Intanto però ne subiremo tutti gli effetti negativi, a cominciare da quelle larghe intese come unica soluzione altrimenti si tornerà a votare, con o senza legge elettorale. Prospettiva poco entusiasmante. A meno che le intese non siano esse stesse un voto nel voto, con alleanze inaspettate.

Abbiamo vissuto una campagna elettorale alla quale, ha ragione Andrea Camilleri, è «impossibile dare un nome a una cosa tanto disgustosa, tra false promesse e insulti reciproci da comari». Le estenuanti apparizioni televisive, con infornate di candidati presidenti e un già presidente del consiglio, Gentiloni, prezzemolo della tv nelle vesti di laudatore dell’attuale governo, cioè di se medesimo, e già candidato in pectore per succedere a se stesso.

E, a proposito di disgusto, uno prevale sul resto: il ritorno di Berlusconi, la maschera dell’imbonitore che straparla confondendo lire e euro, il cavallo di Troia senza il quale la Lega e Fratelli d’Italia resterebbero lontani dal governo e i loro voti in frigorifero.

Quando il presidente della commissione Ue Juncker entra a gamba tesa sull’esito del voto, mettendo in preallarme la comunità europea sulle possibilità di governo, nessuno in Europa – e in Italia – spende una parola per chiedersi come sia possibile che un condannato per frode fiscale guidi una coalizione in grado di competere per conquistare le redini del nostro paese. Che, sarà bene ricordarlo, portò la spesa sociale dai 346 milioni che era nel 2008, a 52,5 milioni nel 2011.

Tutti i nostri “leader” si sono innervositi per l’uscita del presidente europeo. E si capisce perché: è acclarata l’ampia disponibilità verso una “unità nazionale”. Anche con chi ci ha portato alla bancarotta. Ma non pochi italiani sono pronti a perdonare, affetti da memoria corta o stuzzicati dalle pulsioni razziste della Lega con i suoi cattivi umori contro gli immigrati, i crocifissi e il vangelo offerti nella gremita piazza Duomo a Milano: proprio l’immigrazione è la prova concreta della strumentalizzazione di un fenomeno epocale che ci riguarda molto da vicino. La guerra in Libia con la moltiplicazione degli sbarchi, la grande sanatoria dei 700 mila immigrati irregolari, seguita da un’altra sanatoria nel 2009 per trecentomila “clandestini”. Tutta farina del centrodestra che ora accusa il governo perché non ferma i flussi, che in realtà stanno invece diminuendo, facendo pagare un prezzo drammatico ai fuggitivi da fame, povertà e guerre, trattati come animali nelle carceri libiche.

IL RENZISMO, CHE INIZIALMENTE aveva creato speranze e conquistato consenso si è autodistrutto con il referendum costituzionale. Che ci ha portato in dote il governo Gentiloni. Ma è sulle politiche del lavoro e sociali che il Pd ha perso sostegno provocando altre fratture alla sua sinistra e con i sindacati. Il Pd di Renzi ci ha regalato diritti civili e una precarietà feroce. A ben vedere un programma da destra liberale, più Lib che Lab. Dove l’eroe laburista sarebbe il ministro montiano Carlo Calenda che, non per caso ma per profonda sintonia, vota Bonino.

QUESTO PD HA LASCIATO I GRILLINI parlare da soli di corruzione e mafie, spara i fuochi artificiali anche sull’occupazione femminile che è al 48% quando la media europea tocca il 61%, peggio di noi solo la Grecia. Ora Renzi chiede il voto promettendo miliardi alle politiche per la famiglia, una specie di bis degli 80 euro. Chiacchiere, altri bonus, nemmeno l’ombra di un welfare che annulli le discriminazioni di genere. Sul piano della rivoluzione ambientalista, all’ordine del giorno per la vita del pianeta, questo governo presenta un pessimo bilancio. Dal referendum sulle trivelle al consumo di suolo fino alla mancata attuazione delle leggi europee sull’inquinamento atmosferico, con il rischio di pagare salate penali. Sulla scuola si fanno paurosi salti all’indietro, sia sul diritto allo studio che sulla svalorizzazione economica e culturale di quella che una volta si chiamava università di massa. Oggi di massa sembra esser rimasto l’esodo dei (pochi) laureati.

E DUNQUE QUESTE ELEZIONI sono l’occasione per portare in parlamento una sinistra in rappresentanza di lotte, battaglie, visioni del mondo. In quelle francesi, tedesche, inglesi, e americane la sinistra radicale è stata votata da milioni di persone. Con qualche tono eccessivamente pessimista, recentemente Pablo Iglesias, il leader di Podemos (oggi intorno al 19%) diceva che gli faceva un po’ tristezza vedere che in Italia non c’è una sinistra forte abbastanza da competere nella sfida del governo. Ma è vero che dopo cinque anni di legislatura, con tre governi espressione della ricetta renziana alla crisi (una linea politica che una volta si sarebbe definita anti-operaia), la rabbia popolare non ha trovato la sinistra capace di ascoltarla.

CI RITROVIAMO CON UNA DESTRA molto forte e probabilmente vincente, aggressiva e retriva, cresciuta a corruzione e violenza, incarnata da un ottuagenario pregiudicato, da un bullo xenofobo e da una seguace di Orban. A contendergli lo scettro della vittoria non sarà il Pd di Renzi, ma il partito-movimento dei 5Stelle, non una piccola cosa bensì il primo partito italiano, dove il cittadino “occupa” il parlamento ma il governo è affare del capo politico che ha già scelto. Un partito con un elettorato al 40% di giovani, che dice di voler ripristinare l’articolo 18, cancellare il job act, e modificare la legge Fornero. Un movimento anfibio, con una gestione politica spregiudicata, poco trasparente, con il boomerang giustizialista che ha colpito come birilli i candidati fast-food. Con la lista dei ministri i 5Stelle hanno azzeccato gli ultimi giorni di propaganda, e, a giudicare dai nomi, si tratta di persone che guardano a sinistra, scelte tutte all’esterno, un “governo dei professori”. Sintomo non già di un ritorno al “montismo”, ma al mito delle competenza senza una storia politica, nomi esterni all’organizzazione, da poter bruciare se non rispettano il crono-programma benedetto sull’altare del direttorio.

QUESTO SCENARIO CI DICE GIÀ tutto sulle difficoltà della sinistra in questo confronto elettorale. Una sinistra che chiede il voto ma è divisa tra un tentativo unitario (Liberi e Uguali) e uno identitario (Potere al popolo). Liberi e Uguali ha il merito di raccogliere la scelta di Bersani e D’Alema di lasciare il partito, uno strappo sonoro, un segno di autocritica, l’abbandono dei renziani e degli alleati-satelliti ulivisti e radicali. Non si tratta di un percorso né facile, né scontato, perché chi si è speso nell’impresa di proporre oggi una lista per farnedomani un partito, a cominciare dai due presidenti di camera e senato, Grasso e Boldrini, non lo ha certo fatto per la poltrona. Potere al popolo, l’altra lista a sinistra del Pd, non fa parte di questo processo unitario. Raccoglie movimenti e giovani che lavorano nelle nostre periferie sociali, dove organizzano lotte su welfare e accoglienza con filiere solidaristiche, come a Napoli. Una lista con Rifondazione comunista che partecipa alla competizione elettorale cimentandosi nell’arduo compito di non disperde i voti e fare testimonianza.

C’È CHI SCEGLIERÀ DI USARE la prima scheda per votare Liberi e Uguali e la seconda scheda per votare Potere al Popolo (unico voto disgiunto possibile). Ma è evidente che se la lista di Grasso riuscisse a raggiungere un risultato apprezzabile, il 5 di marzo i discorsi sul futuro della sinistra, anche in Italia, potrebbero contare su una solida base di partenza (la Linke alle ultime elezioni tedesche ha raggiunto il 9,2%). Diversamente, nel caso di risicate percentuali, avremo due risultati che confinano la sinistra in una modesta enclave. Tutto sarebbe più difficile e il discorso sulla sinistra rinviato a improbabili tempi migliori. Il battesimo politico del presidente del senato è stata una scommessa, e non è detto che quel che gli si imputa (non avere la stoffa del campaigner) non si riveli invece, come fu per l’impacciato Prodi nella sfida con Berlusconi, una freccia in più nell’urna, insieme a quella rappresentata da Laura Boldrini.

INUTILE NASCONDERE IL PESO della disillusione per non essere riusciti a superare le divisioni (spesso personalistiche e ideologiche) e tutto si può dire tranne che le elettrici e gli elettori andranno alle urne sereni e contenti. L’animo e le intenzioni di chi andrà al seggio sono attraversati più da cattivi presagi che da convinte speranze. Del resto, quando ci si presenta alle elezioni non si può poi sfuggire alla dura replica dei fatti, in questo caso alla conta dei voti. E, a sinistra, l’astensionismo peserà. Per questo domani i voti utili saranno due. Il primo consiste nell’andare a votare. Il secondo è il voto a sinistra per cambiare il paese.