«Una delle donne che ci ha chiesto aiuto ha detto: ’Il virus ce l’abbiamo da tanto tempo in casa e si chiama fame. Abbiamo bisogno di cibo’. Le statistiche ufficiali indicano 178 decessi in Afghanistan, ma non sono affidabili. Il governatore della Provincia di Herat Abdul Quayom Rahimi ha dichiarato il 14 marzo: “Temo che arrivi il giorno in cui non si potranno nemmeno raccogliere i morti”. Herat è stata la città più colpita all’inizio, quando il vicino Iran ha aperto unilateralmente la frontiera, lasciando tornare a casa gli afgani, preferibilmente quelli malati. L’emergenza sfugge al controllo: si fanno pochissimi tamponi, non si sanno le cifre reali, alcune persone infette sono scappate dagli ospedali. Il lockdown a Kabul è durato dal 28 marzo al 24 maggio, esteso a tutto il territorio. Per di più è stato il periodo di Ramadan dal 24 aprile al 23 maggio».

A parlarmi è Susanna Fioretti, presidente di Nove Onlus, fondata da un gruppo di esperti di cooperazione internazionale di cui è entrato a far parte Alberto Cairo, icona umanitaria e cittadino onorario afgano. Susanna, infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana ed esperta sociale di genere, ha lavorato in progetti di emergenza e sviluppo in Mauritania, Iran, India, Yemen, Mozambico, Sudan, Sud Sudan e Afghanistan, per la Croce Rossa Italiana, la Croce Rossa Internazionale, il Ministero degli Affari Esteri. Ora lei è bloccata a Roma, Alberto (per scelta) a Kabul. Le chiedo della situazione delle donne perché se il virus si chiama fame sono loro le ultime a mangiare in Afghanistan. «II 2020 secondo molti addetti ai lavori avrebbe dovuto essere ground-breaking per la parità di genere. A causa del Covid-19 invece anche i limitati passi avanti fatti rischiano di essere vanificati, perché le donne sono le più penalizzate dagli effetti della pandemia.

Agli alti livelli
Nei Paesi in via di sviluppo se da una parte rappresentano circa il 70% degli operatori sanitari e sono quindi molto più esposte al rischio di contagio, dall’altra sono poco o per niente rappresentate nei livelli più alti, dunque non vengono coinvolte nelle decisioni su come affrontare l‘emergenza e le sue conseguenze. Per di più molte donne sono impegnate nell’economia informale, che è la prima a cedere in caso di blocchi. Anche in Italia parte di quelle impiegate ‘al nero’ sono dovute restare a casa perdendo il lavoro. Inoltre, le donne rappresentano la grande maggioranza di chi si occupa del cosiddetto care work non retribuito: accudimento di figli, fratelli minori, parenti malati, disabili, oltre a faccende domestiche di ogni tipo. La pandemia aggrava questo peso e chi è riuscita a fatica a procurarsi un guadagno con una piccola attività, spesso non può continuare per mancanza di tempo, facendo così un passo indietro verso la povertà e la dipendenza economica. Anche in campo educativo sono penalizzate soprattutto le femmine nei Paesi dove la scolarizzazione è bassa: se la scuola chiude, o bambine e ragazze vengono tenute in casa perché la pandemia aumenta i bisogni familiari, spesso a scuola non tornano mai più. Inoltre, quando le risorse scarseggiano, vengono tagliati i fondi a servizi sanitari importanti per le donne, come i consultori per la contraccezione, per cui per esempio possono esserci molte più adolescenti incinte, o quelli di assistenza psicologica per le vittime di violenza.

Centro di ascolto
E l’impatto che più temo del Coronavirus sulle donne afghane è proprio la violenza. A Herat il centro di ascolto per le donne maltrattate era stato ubicato in un ospedale, così potevano andarci di nascosto, senza suscitare sospetti, ma è stato chiuso e trasformato in centro anti-Covid. In Afghanistan non ci sono dati certi sul numero di donne che subiscono violenza, perché molti casi restano sconosciuti. Le stime ufficiali parlano del 51%, e se a livello mondiale si prevede un aumento di oltre il 20% durante il lockdown, in Afghanistan si teme si vada ben oltre. E lì è difficile salvarsi. Quando una donna grande o piccola trova la forza di scappare, se non ha contatti con gli enti che offrono fra mille rischi protezione alle vittime di violenza, si rivolge alla polizia, che quasi sempre la riporta alla famiglia con conseguenze drammatiche».

Nove Onlus ha formato finora oltre 2.200 ragazze afghane, ha trovato a centinaia di loro posti di lavoro qualificati e retribuiti. In meno di 2 anni ha fatto ottenere la patente di guida a quasi 200 donne (il 16,4% di tutte le patentate di Kabul in 5 anni), e lanciato il ‘Pink Shuttle’, il primo servizio di trasporto solo per donne, con pulmini guidati da donne, finanziato da ‘Only the Brave Foundation’. Durante l’emergenza Coronavirus, grazie ai fondi elargiti da ‘The Nando and Elsa Peretti Foundation’ ha aiutato a Kabul 190 famiglie dei distretti più poveri, in molte delle quali il capofamiglia è una donna, distribuendo a ognuna 70 chili di alimenti essenziali, mascherine, disinfettanti e guanti, mentre a 125 famiglie di persone disabili ha consegnato lo stesso kit di materiale igienico e un voucher per l’acquisto di cibo. L’intervento, in cui è stato coinvolto un medico per insegnare le misure che prevengono il contagio, ha aiutato nel complesso oltre 2500 persone (ogni famiglia afgana è composta in media di 8 persone). «Quando un anziano del distretto dove stavamo distribuendo ha saputo che gli aiuti provenivano da una piccola organizzazione italiana, ha pianto dalla commozione, perché aveva visto in televisione che l’Italia è uno dei Paesi più colpiti dal Covid-19».

Anche in Italia
Nove Onlus è impegnata nell’emergenza Coronavirus anche in Italia. A Roma e Ladispoli ha partecipato ad acquisto e distribuzione di generi alimentari a famiglie in difficoltà e senzatetto, in collaborazione con la Croce Rossa Italiana; lo stesso ha fatto per donne vulnerabili assistite dalla Cooperativa l’Accoglienza. A Salerno e Roccapiemonte, insieme a Coldiretti, ha fornito generi di prima necessità che sono stati distribuiti a famiglie indigenti attraverso la Caritas, aiutando anche le piccole realtà produttive locali in crisi per il blocco della distribuzione.

Susanna Fioretti è nata e vissuta nella ‘Roma bene’ fino a quando, dopo aver seguito il corso di infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana, ha cominciato a fare servizio nel campo Casilino 900, dove fra risse e prostituzione convivevano nomadi e emigrati campani che avevano disposizione una sola fontana e una fossa come unico bagno. «È allora che ho aperto gli occhi e ho capito che cosa volevo fare». Quando i figli sono cresciuti ha cambiato vita: affrontata una battaglia ecologica contro il progetto di una gigantesca centrale termoelettrica su una delle ultime spiagge dove nidificavano le tartarughe nell’isola di Rodi, e costruita lì la prima casa ecologica dell’isola con i muri di paglia, ha cominciato il lavoro di cooperante. Ha raccontato le sue avventure umane e umanitarie in 4 libri: Frammenti di una storia romana (Palombi 1989) sull’esperienza del Casilino 900, La tela di Penelope (Sideral 2004) e Involontaria (Einaudi 2011) in cui ha messo tutto insieme, amori, figli, nipoti, missioni, perché «la mia vita è questa», e Quattro al secondo (Stampa Alternativa 2017, titolo riferito al numero di nascite sulla terra) che racconta le storie di quattro bambine nate in condizioni e luoghi molto diversi, riflettendo su quanto conta dove, come e da chi si nasce e cresce.

Le chiedo se pensa che il Coronavirus possa essere l’occasione per ricostruire un mondo migliore: «Poiché la pandemia amplifica le diseguagliane, sono d’accordo con chi raccomanda di impegnarsi per evitarlo e cogliere invece l’opportunità di ricostruire società più inclusive, che mettano le donne, le ragazze e le bambine al centro. Come? Assicurandosi che siano adeguatamente rappresentate in tutte le sedi dove si prendono le decisioni, anche in Italia, dove si sono viste ben poche donne nelle varie task forces. E privilegiandole in ogni risposta all’impatto socio-economico, senza dimenticare l’economia informale, da cui moltissime dipendono. Se necessario ricorrendo a sanatorie: perché sanare lo svantaggio femminile dovrebbe essere lecito almeno quanto lo è stato regolarizzare la posizione di chi ha frodato il fisco. Le privazioni derivanti dal Covid-19 che abbiamo sperimentato sulla nostra pelle potrebbero avere anche il risvolto positivo di avvicinarci alla parte di umanità che subisce costantemente e ben più duramente stigma, paura, mancanza di libertà, impossibilità di stare accanto a chi si ama, veri razionamenti, fame e tanto altro. L’ambiente non è il mio campo ma chiunque può vedere l’effetto che anche su di esso ha avuto il lockdown, creando una sorta di gigantesco laboratorio che nessun ambientalista si è mai sognato di avere. Chi avrebbe potuto bloccare intere città e nazioni, chiudere in casa miliardi di persone per studiare dal vivo la relazione tra traffico di ogni tipo e inquinamento, e tutto ciò che ne deriva per animali selvatici, acque, spazzatura e via dicendo? Penso che abbiamo imparato cose importanti da tutto questo e spero che riusciremo a servircene per ripartire con una visione nuova, in economia ma non solo».