Il cosiddetto documentario di argomento rock è un genere a sé stante. Possiede una forma canonica strutturata quasi sempre intorno al montaggio di interviste recenti, con i protagonisti che guardano con nostalgia, rimpianto, divertimento, ironia al loro passato, testimonianze , materiale d’archivio che rievoca momenti cruciali della carriera e interviste d’epoca. Le modalità di strutturare questi elementi in un racconto più o meno appassionante non sono poi tantissime.

A VOLTE il risultato è accettabile dal punto di vista formale ed esaustivo storiograficamente come nel caso del film di A. J. Eaton prodotto da Cameron Crowe David Crosby: Remember My Name. La maggior parte delle volte, invece addirittura terrificante, come nel caso del film sui Tangerine Dream di Margarete Kreuzer Tangerine Dream: Sound from Another World. Motivo per cui l’appassionato di musica sovente non presta neppure attenzione alla fattura formale scrutando il film in cerca di informazioni o immagini inedite mentre il cinefilo raramente presta attenzione alla musica.

A ben vedere, a differenza del gran parlare che si fa cinema e rock, uno dei classici immortali delle riviste di cinema e di musica, il cinema e la musica rock, raramente hanno collaborato in forme reciprocamente soddisfacenti o creative (salvo le eccezioni che tutti conoscono). Men che mai in tempi recenti. Motivo per cui un film come A Dog Called Money di Seamus Murphy – in Italia presentato a Filmmaker e ai Popoli – si offre come una notevolissima eccezione alla regola. P J Harvey, consapevole delle ristrettezze formali, ha evitato uno per uno tutti i luoghi comuni del genere. Con la collaborazione del fotografo Seamus Murphy al suo esordio nella regia cinematografica, cui è stata concessa la massima fiducia, la musicista ha creato un diario intimo che documenta la creazione di The Hope Six Demolition Project, lavoro del 2016.

IL DISCO, estremamente avventuroso, non fu accolto dall’entusiasmo che la critica specializzata di solito riserva ai lavori della musicista. Avendo intercettato P J Harvey dal vivo a Istanbul allo Zorlu Performing Arts Center, all’indomani di un attentato costato la vita a numerosi agenti di polizia, risultava evidente invece la straordinaria passione investita in ciascuna delle canzoni del disco i cui testi, per nulla agevoli, erano cantati parola per parola dal pubblico composto per la maggior parte di adolescenti nonostante le celebrazioni del Ramadan.

La tensione di PJ Harvey di quel concerto scolpito nella memoria si ritrova nelle immagini del film. A Dog Called Money rivela l’enorme mole di lavoro investito dalla musicista nella realizzazione dell’album. Il film segue la musicista in giro per il mondo, come a volere toccare con mano lo stato delle cose del pianeta. Cosa pericolosa, questa, ovviamente, perché il misery porn stile Bono Vox è sempre in agguato. PJ Harvey e Murphy riescono invece ad evitare del tutto lo sguardo caratteristico della superstar che si imbarca in un viaggio per visitare le miserie del pianeta.

L’umiltà con la quale indossa il velo in Afghanistan, la tenerezza con la quale si rivolge alle persone, trattate non come materia per trarre «ispirazione» ma con istintiva e autentica compassione e solidarietà si ritrova nella decisione con la quale il film evita le strizzate d’occhio al fan che magari agli attentati di Kabul non ha mai pensato.

«LA PRODUZIONE voleva a tutti i costi che inserissimo anche dei brani di concerto nel film, cosa sulla quale ero ovviamente totalmente contrario», ci spiegava Seamus Murphy a Nyon ospite di Visions du Réel. «PJ Harvey mi ha sempre sostenuto e si è battuta con me affinché il nostro lavoro fosse un autentico film e non un film-concerto con inserti da agenzia di viaggio».
Murphy, fotografo qui alla sua prima regia, riesce quindi nell’impresa di intrecciare al racconto della genesi del disco con le complessità dei posti che attraversa, radicandosi nelle realtà dei luoghi.

Esemplare il passaggio in Kosovo, dove la troupe del film è stata accolta da Veton Nurkollari, direttore del DokuFest di Prizren (la macchina che si vede nel film è quella di Nurkollari). Conferma di un tentativo sentito di interagire con la realtà dei luoghi piuttosto che sfruttarla per ottenere del mero plusvalore esotico. A questo proposito, interpellato, Nurkollari ricorda: «Ho incontrato P J Harvey per la prima volta quando lei e Seamus Murphy parteciparono a DokuFest per presenziare alla proiezione di 12 video realizzati per l’album Let England Shake. Non potevo avere nessun sospetto che il loro viaggio in Kosovo avrebbe dato vita alle canzoni per il nuovo album e al film. Abbiamo trascorso cinque giorni girando in macchina con Polly che scriveva in continuazione mentre Seamus scattava innumerevoli fotografie. Quando dopo qualche tempo Seamus è ritornato, mi sono reso conto che stava lavorando al film».

NEL CORSO del suo lungo viaggio, dunque, PJ raccoglie suoni e idee. Di ritorno a casa, le cinque settimane della registrazione del disco diventano una installazione sonora. Nello studio di Somerset House a Londra il pubblico può seguire le fasi della creazione del disco attraverso un sistema di specchi a senso unico. L’atto della creazione e della scrittura diventa una performance artistica.
Rifiutando tutti i luoghi comuni del rockumentary, A Dog Called Money riesce a offrire un’immagine convincente di un processo creativo complesso che mette in gioco soprattutto l’immagine della «star». Un’opera profonda e commovente, di una sincerità sconcertante. A immagine e somiglianza di P J Harvey.