«’Sua cugina non sente i sapori…’», ’sua cugina è stata costretta a rapporti orali’, ’sua cugina non mangia…’ E pensai a Lafanu. Anche lei dopo quella notte non sentiva i sapori. Probabilmente aveva subito lo stesso strazio di Binti». La linea del colore, ultimo romanzo di Igiaba Scego (Bompiani, pp. 384, euro 19), trova in queste frasi una sua sintesi possibile: la vita di due ragazze, entrambe somale, vittime non solo della propria provenienza geografica, ma anche del loro essere donne.
Binti vive nella Mogadiscio dei giorni nostri, Lafanu Brown è una pittrice nera della metà dell’800. Entrambe sognano l’Europa: la loro bussola punta verso l’Italia. La prima per affrancarsi dalla povertà della terra natìa, la seconda per affermarsi come artista «osservando i classici a Roma» e sfuggire alla società americana del XIX secolo ancora permeata dal colonialismo.

ALLE STORIE di queste due donne si mescola quella di una terza, Leila, cugina di Binti, che vive in Italia. È una curatrice d’arte e a tutti i costi vuole far conoscere ai giovani la pittrice che ha scoperto da poco. È proprio così, attraverso gli studi su Lafanu Brown e la sua produzione creativa, che Leila traccia quel filo teso tra l’artista e sua cugina. Tre vite in una voce sola, quella dell’autrice, giornalista e scrittrice italiana di origine somala che molto ha dedicato al racconto postcoloniale della sua terra.

NEL SUO LIBRO, un ibrido tra romanzo storico e di formazione, Lafanu Brown è un personaggio di fantasia nato dalla fusione tra due grandi donne realmente esistite: l’attivista anti schiavitù e ostetrica Sarah Parker Remonds e la scultrice Edmonia Lewis. C’è tutto il racconto della négritude nelle pagine di Scego, la stessa di cui parlava Aimé Césaire: la negazione dell’assimilazione, il rifiuto che il nero possa essere in grado di costruire una civiltà. E la racconta con dolore, non risparmiando stilettate velenose alla società contemporanea incapace di immedesimarsi nelle tragedie degli altri.

«E POI QUELLA NOTIZIA che mi fece ridere. Un topo in Germania era incastrato nel tombino perché troppo grasso. Guardai i commenti sui social. Il topo era l’argomento del giorno. Non solo era stato ritratto in quella posa ridicola, ma era stato salvato dai pompieri. La gente esaltava il gesto. E chi non elogiava i pompieri tedeschi, spendeva parole sul topo, che veniva definito dolcissimo. Magari quella gente lodava i pompieri ma denigrava le ong e chiunque si azzardasse a salvare vite umane. Non ce l’avevo con quel topo. Era solo nato nella parte fortunata del mondo. Anche lui aveva un passaporto forte».
Il momento storico in cui questo libro è stato scritto e pubblicato non può dirsi dei migliori, in termini di superamento delle ferite storiche: ad Amsterdam fa discutere una mozione per chiedere ai cittadini di scusarsi formalmente per il ruolo avuto durante la tratta atlantica degli schiavi dall’Africa cui i Paesi Bassi presero parte tra XVIII e XIX secolo.

IN ITALIA SI LAVORA con difficoltà per modificare (leggi: abolire) i decreti sicurezza che hanno ridotto la protezione umanitaria a un lusso per pochi ed esacerbato la marginalizzazione dello straniero. La Linea del colore non si concentra sulla migrazione, il viaggio, le privazioni e la violenza. Queste sono solo lo sfondo – nero – su cui scivola la vita dei protagonisti. Non c’è sacrificio di emozioni e dettagli sull’altare della scorrevolezza narrativa. Anzi: le pause sono uno dei suoi punti di forza, insieme all’accostamento «cromatico» tra il mondo e la tavolozza dell’artista.