Tra ingenti misure di sicurezza e allerte dell’intelligence che avrebbe preferito che restasse in Vaticano, è iniziato ieri il viaggio di papa Francesco in Africa (dove la chiesa cattolica è in rapida crescita con un aumento dei fedeli previsto per il 2050 di circa mezzo miliardo e dei musulmani a 670 milioni).

Ad accoglierlo allo Jomo Kenyatta International Airport di Nairobi c’erano il presidente del Kenya Uhuru Kenyatta, il governatore della capitale Evans Kidero, il cardinale Nju al seguito di vescovi e suore.

È la prima volta di Francesco in Africa e a dargli il benvenuto c’erano oltre alle autorità del posto, una folla gioiosa tra canti e danze tradizionali dietro i cordoni del percorso ufficiale dall’aeroporto alla State House, residenza ufficiale del capo dello stato. Da qui il papa ha esortato i leader mondiali a perseguire uno sviluppo economico responsabile e a preservare la natura per le generazioni future (Luca Kocci in questo numero del manifesto ndr).
Dal latino del Grata Franciscus Pontifex allo swahili (la lingua regionale) di Karibu Papa Francis, i welcome del maggior quotidiano kenyano il The Stendard. Seguito dal Daily Nation che lo definisce «il leader più amato al mondo, onorato per rifuggire gli ornamenti principeschi del papato a favore di umiltà e amore» e al Business Daily che lo apostrofa come il «sostenitore di radicale cambiamento nell’ordine economico mondiale».
Titoli che fanno eco alle aspettative dei cattolici kenyani (che costituiscono circa il 30% su una popolazione di 45 milioni di abitanti) quanto dei musulmani che ben hanno carpito il senso di questo viaggio (che travalica ragioni meramente pastorali) quando con le parole di uno dei loro leader locali lo accolgono come foriero di speranza agli «oppressi nei bassifondi».

Benché questo viaggio sia nelle intenzioni scevro di significati politici tout court (come fu invece quello a Cuba), di questi ne porta tutto il peso e l’autorità andando a culminare in uno dei Paesi più poveri, pericolosi e isolati nello scenario geopolitico mondiale (in quella che in epoca coloniale era nota come la Cenerentola della madrepatria), al margine delle agende politiche che contano ma al tempo stesso uno dei più ricchi di risorse naturali. Vale a dire la Repubblica Centrafricana, che soffre una guerra civile dal 2013 e che dall’indipendenza dalla Francia nel 1960 ha subito ben 5 colpi di Stato. Da qui, dalla cattedrale di Bangui – dilaniata da un conflitto sanguinoso tra le milizie dei Seleka (gli arabi del nord così sono chiamati dalle comunità del sud a maggioranza cristiana) e quelle degli Anti-balaka (anti-machete nella lingua locale sango, a maggioranza cristiana e animista) – Francesco aprirà il 29 novembre la «porta santa» del Giubileo della misericordia.

Bangui sarà dunque l’ultima tappa di questo viaggio africano del pontefice. Dopo il Kenya, dove ieri ha incontrato Kenyatta e oggi è ospite degli headquarters delle Nazioni unite a Nairobi, Francesco è atteso in Uganda (27 e 28 novembre) e infine nella Repubblica Centrafricana (29 e 30).

Tanto il Kenya quanto l’Uganda sono da anni sotto il tiro del gruppo islamista somalo degli Al-Shabaab. Si ricorderà ad aprile scorso l’assedio di circa 15 ore e il massacro di almeno 147 studenti del Garissa University College (circa a 150 km dal confine con la Somalia, nel Kenya nordorientale). Il numero di morti più alto dopo quello dell’attacco all’ambasciata americana a Nairobi nel 1998 (più di 200).

E quello di settembre 2013 al Westgate Shopping Mall di Nairobi: circa 69 i morti, di nazionalità kenyana, ganese, canadese, francese, olandese e britannica.

Mentre in Uganda, nel 2010 – in occasione dei mondiali di calcio, furono circa 79 le vittime di un attentato a Kampala, rea come Nairobi agli occhi dei jihadisti di avere invaso la Somalia.

Così mentre l’Europa va alla guerra, stretta nella morsa della paura, blindata da provvedimenti restrittivi dei diritti e delle libertà dei suoi cittadini, attenta al tempo stesso a preservare l’agenda diplomatica e quella degli obiettivi strategici, un Papa – Francesco – va in missione di pace.

Quasi a invertire il vortice di caos in cui tante «maledette guerre» e conflitti sbagliati degli ultimi anni – a partire almeno dalla prima guerra del Golfo – hanno trainato i popoli e le religioni di mezzo mondo. Un’agenda politica bellicosa e miope e una mattanza di vite che mette in discussione «il diritto all’esistenza della stessa natura umana» che non possono essere capovolte se non parlando agli animi degli ultimi. Di chi cioè è spesso a sua insaputa usato a scudo di ingerenze militari in nome di dio e degli interessi dei signori della guerra, di politiche espansionistiche come di interessi strategici e finanziari che esulano dal rispetto dei principi universali quali – a summa degli altri – l’autodeterminazione dei popoli.