Lanciato nel 1987 come una delle attività legate ad un gruppo di critici, registi e videoartisti giapponesi formatosi agli inizi degli anni settanta, l’Image Forum Festival , giunto alla sua trentaduesima edizione, si è concluso domenica scorsa a Tokyo. La manifestazione si svolge ogni anno in agosto nella capitale giapponese, ma ha il pregio di portare il suo programma principale nei mesi seguenti anche in altre città nipponiche – come Yokohama, Nagoya, Fukuoka e Kyoto – un fatto di non poca importanza visto che spesso Tokyo cannibalizza molti degli eventi culturali del paese.

Il Festival  costituisce un unicum nel panorama festivaliero dell’arcipelago perché – fin dal lontano 1973 quando si chiamava ancora Mostra del Nuovo Cinema Underground e poi Festival del Cinema Sperimentale dal 1978 – è principalmente dedicato alla video arte ed al cinema sperimentale. Nella sua forma attuale la manifestazione continua a offrire un eccellente panorama del «cinema ai confini del cinema» proveniente da tutto il mondo, con un’attenzione particolare, che quest’anno si è ampliata di non poco rispetto alle precedenti edizioni, verso le opere realizzate nel Sud est asiatico.

Una delle retrospettive più significative proposte quest’anno ha esplorato la produzione visiva di Christoph Schlingensief, regista di film per il grande schermo e per la televisione, autore di teatro ed artista a tutto tondo, scomparso nel 2010.
Il regista tedesco è stato autore di un’opera multiforme e sempre controcorrente, sia stilisticamente che per i contenuti, ma che in certi casi, specialmente quando viene rivista oggi, perde molta della sua carica al vetriolo e dei riferimenti culturali e storici che la animavano. All’Image Forum Festival sono stati proiettati otto dei suoi lavori, fra i quali spicca la cosiddetta «trilogia tedesca» – 100 Years Adolf Hitler – The Last Hour in the Führerbunker (1989), The German Chainsaw Massacre – The First Hour of the Reunification (1990) e Terror 2000 – Germany out of Control (1992) – in cui Schlingensief attacca violentemente la Germania subito dopo l’unificazione di Est e Ovest con una serie di eccessi visivi girati a bassissimo costo, dove ad eccellere sono soprattutto le prove attoriali da Grand Guignol del suo gruppo di attori, molti dei quali già associati al «clan» di Rainer Werner Fassbinder.

Decisamente attuale invece Foreigners Out! Schlingensief’s Container, il film con cui il regista documenta un suo happening/installazione realizzato nel 2000. Come reazione all’ingresso nel governo austriaco di Jörg Haider, la prima volta per un esponente dell’estrema destra dopo la guerra, Schlingensief installò infatti un «campo di concentramento» nel pieno centro di Vienna, mettendo alla berlina la xenofobia e l’odio razziale in ascesa nelle coscienze, e prendendosi gioco allo stesso tempo dei reality show e della televisione.

La visione più convincente della retrospettiva è stata quella di 100 Years of Adolf Hitler, una surreale ricostruzione dell’ultima ora di vita del dittatore rinchiuso nel bunker assieme ai suoi fedelissimi. Qui lo stile povero, che si serve di bassa tecnologia, utilizzato dal tedesco trova un perfetto corrispettivo nelle atmosfere claustrofobiche e buie dei sessanta minuti del film, un delirio scatologico, sessuale e politico che ricorda gli eccessi teatrali e sonori di Antonin Artaud.
Più strettamente sperimentali le altre due retrospettive presentate all’Image Forum Festival, una dedicata all’artista austriaco Kurt Kren, di cui sono stati proiettati alcuni cortometraggi: si tratta di un cinema strutturale la cui punta è forse 31/75 Asylum, del 1975.

L’altra retrospettiva era invece dedicata al fotografo giapponese Hiroshi Yamazaki: famoso per le sue opere concettuali che esplorano la relazione fra tempo e luce, nel corso della sua carriera – dagli anni settanta fino alla sua morte l’anno scorso – Yamazaki è stato anche autore di cortometraggi, con i quali ha portato su pellicola a 16mm le stesse tematiche affrontate con il mezzo fotografico.
Uno dei film più attesi del festival era Caniba, il documentario girato da Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor presentato alla Mostra del Cinema di Venezia dell’anno scorso, e che ha avuto all’Image Forum Festival il suo debutto giapponese. Al centro del film c’è la figura del cannibale Issei Sagawa, che nel 1981 a Parigi uccise, smembrò e mangiò una giovane ragazza olandese: ancora oggi è uno dei personaggi più controversi e irrappresentabili del Giappone contemporaneo, e che forse bisognerebbe imparare prima o poi ad abbandonare al suo silenzio.

Nel programma Anime-Asean sono state presentate otto opere d’animazione, fra corti e mediometraggi, realizzate da artisti del Sud est asiatico provenienti da Malesia, Filippine, Thailandia, Singapore ed Indonesia. E ha continuato questa esplorazione del continente asiatico la sezione forse più interessante dell’intero programma: East Asia Experimental Competition, dove oltre a molti cortometraggi realizzati da artisti giapponesi, taiwanesi, cinesi e coreani, sono stati proiettati anche alcuni lungometraggi. Fra i più riusciti A Yangtze Landscape – già passato per alcuni festival internazionali – un documentario con cui il regista cinese Xu Xin esplora in un intenso bianco e nero il paesaggio materiale e sociale che si snoda lungo il Fiume Azzurro, il corso d’acqua più lungo della Cina.

Slow Motion Stop Motion della giapponese Mie Kurihara, film girato nel corso di quattro anni fra Laos, Myanmar e Thailandia, ha ricevuto meritatamente sia il Grand Prize che l’Audience Award. Le due ore e mezzo del film sono al contempo un viaggio nella quotidianità di alcune zone rurali dei luoghi visitati dalla regista e una riflessione, spesso comica, sul feticismo di registi e artisti verso i mezzi tecnologici da loro stessi impiegati.
La parte più riuscita è senza dubbio quella in cui, con uno stile a metà strada tra l’home movie ed il documentario personale, Kurihara rivela con pazienza e senza facili estetizzazioni la vita ordinaria e povera, ma in fin dei conti felice, di alcuni nuclei familiari che visita annualmente.

Il pregio maggiore di questo esperimento visivo è proprio lo scarto che cerca rispetto ad una facile ricerca di immagini «belle», da cartolina, per concentrarsi invece su una partitura di immagini semplici e se vogliamo amatoriali, spesso girate dagli stessi bambini con cui la regista ha stretto amicizia – che ci restituiscono una rappresentazione della vita nei piccoli villaggi del Sud est asiatico, come un negativo di quello che di solito viene mostrato dalla televisione o da certo cinema, anche quello documentario d’inchiesta.