Sara Manisera ha scritto un libro sulla normalità, quel modello di vita che ora ci appare lontano perché spazzato via in appena quattro settimane da un virus.

La normalità nel mondo dell’agroindustria: storie molto raccontate ma che immancabilmente hanno fatto naufragio nell’assuefazione. Ora che la pandemia si pone come uno spartiacque tra il prima e il dopo, il libro di Manisera potrebbe essere la pietra angolare su cui costruire una nuova normalità, perché quella vecchia emette un putrescente olezzo di sangue e sfruttamento.

Racconti di schiavitù (Aut Aut Edizioni, pp. 174, euro 15) accompagna il lettore in giro per l’Italia, un cammino che inizia dalla storia personale dell’autrice, la cui nonna fu bracciante e poi emigrante in Germania: un siffatto attacco ha il pregio di portare il lettore dentro un passato condiviso seppur rimosso, riuscendo così a creare, grazie ad un storia facilmente traslabile sul passato di quasi tutti gli italiani, un processo empatico in grado di aprire i cuori più duri.

NELLE PAGINE SUCCESSIVE, il libro è agile e si legge in un soffio, Sara Manisera utilizza l’io narrante per continuare a rinforzare il meccanismo emotivo che crea un ibrido sostenibile tra l’inchiesta giornalistica e la narrativa: in più passaggi il lettore si troverà a domandarsi se i racconti dell’autrice siano realtà o romanzi, perché i processi descrittivi indugiano su una esposizione che ricorda il celebre verso di Guido Gozzano, quando diceva «Questo mio stile che pare/ lo stile di uno scolaro/ corretto un po’ da una serva».

IN QUESTO SENSO Manisera ha fatto un lavoro prezioso perché di apertura verso mondi che non conoscono queste vicende, oppure ne hanno sentito parlare mille volte in forma troppo pesante e quindi inarrivabile. Non già quindi un libro per coloro che sanno già tutto, bensì pagine per quelli che mangiano una mela e hanno la curiosità di capire perché quel frutto non valga nulla.
Nella normalità che imperava fino a quaranta giorni fa, e lai sempre più alti piangono disperatamente, nei campi italiani si contavano due mondi: un vasto inferno dei viventi punteggiato di piccoli paradisi, quello sparpagliato lungo lo stivale senza soluzione di continuità.

Quattro capitoli, quattro stagioni, quattro territori, quattro raccolti: Sara Manisera ha girato l’Italia recuperando storie di schiavitù e resistenza, e le sue pagine, a volte, mettono bene in luce la macchina schiacciasassi dell’agroindustria, in cui l’ingranaggio dello sfruttamento non stritola solamente gli ultimi che vanno nei campi a raccogliere la frutta.

LE CAMPAGNE della Puglia in estate, poi l’autunno del cuneese coperto di frutta, l’inverno e la primavera siciliana, quest’ultima scelta «per chiudere il cerchio delle stagioni e del tempo», perché le ultime pagine sono quelle della speranza.
Nelle centotrenta precedenti invece si percepisce bene il corpo a corpo che c’era durante quella «normalità», e anche questo è un punto di forza del libro, ché non cede alla tentazione di avvitarsi nella descrizione di un mondo di nequizie rispetto le quali, ahinoi, l’unica cosa da fare è chiudersi nella denuncia.

OGGI che quella normalità traballa, e tutti hanno paura della tabula rasa imposta da un essere invisibile, il libro di Sara Manisera fornisce esempi per una «nuova normalità» nella quale il consumo della frutta segue il corso delle stagioni e non ha dimensioni interplanetarie, probabilmente ha un costo maggiore, ma assicura dignità e sostenibilità a moltitudini che aspettano solo un nuovo inizio.