La dimensione del sogno, del viaggio, anche solo del viaggio sognato, dentro l’evanescenza, la corsa evanescente della musica – particelle, atomi sonori in corsa in un intervallo di tempo a disegnare flussi cosmici, lo spazio in cui ancora siamo, pensiamo –; è l’ecosistema in cui si muove Battiato negli anni Settanta, tra Stockhausen, influssi filosofici e letterari, l’affiorare di armoniche improvvise a ottundere i suoni cuneiformi della sperimentazione, che da allora non lo lasceranno più. È un invito al viaggio, come canterà poi in Fleurs partendo da Baudelaire; un vagabondaggio negli spazi siderali del cosmo in cui risuonano attriti molecolari, vettori luminosi di un moto browniano che balzano d’era in era, dalle origini rarefatte del mondo a un contemporaneo sospeso, come visto, ascoltato attraverso un filtro smerigliato: «moto browniano/ particelle di polline/ pulviscolo londinese» nell’Ombrello e la macchina da cucire che ravviva, alla metà degli anni Novanta, la cosmogonia di dischi come Fetus, Pollution, Sulle corde di Aries, Clic tra krautrock, elettronica, psichedelia adibiti a rappresentare un respiro e un macchinismo universale.

L’INIZIO DEL TEMPO (materia, suono posti in posizione fetale), l’inizio delle cose, è come sognato, immaginato: la sua lingua è la musica, prima soprattutto strumentale, poi, a mano a mano che l’immaginario di Battiato si fissa in forme di maggiore comunicazione, fiancheggiata dalla parola corrente come in Caffè de la Paix dove «l’inconscio ci comunica coi sogni frammenti di verità sepolte». Mi viene in mente William Blake quando scrive che nulla esiste che prima non sia stato sognato: ecco, Battiato riporta alla luce, a un livello di concretezza smagliante, sonante, la cosa sognata, come se l’origine, l’inizio di tutto non fosse che il sogno di una cosa.

NON C’È STORIA allora: piuttosto mito, al limite ucronia come futurizzazione del mito (ad esempio in Mondi lontanissimi), e poi mitobiografia, cioè racconto di sé attraverso le opere, il pensiero, l’immaginazione già stati, che sono i gangli, i gradi di una memoria arcana quanto personale, indizi concreti dell’inclinazione dell’uomo a scoprire il mito, a scoprirsi in quanto parte di questa enorme mitopoiesi che è il mondo. È il mito sintetizzato, nello sbaraglio di presenze, in Mesopotamia, dove, come in un racconto di Sebald si ritrovano Landolfi, Socrate, Majorana, Benedetti Michelangeli, testimoni della «prima goccia bianca, che spavento/ e che piacere strano/ e un innamoramento senza senso/ per legge naturale a quell’età»; cioè testimoni di quella stilla iniziatica (da lì poi un qualche feto), la cui fuoriuscita allo stesso tempo si stanzia, feconda la terra (Il ballo del potere) e porta lontano, dà vertigine, ti sposta in una dimensione atavica, una via lattea grondante, d’eco. Qui «scocca la sua nota, dolce come rosa» (Gesualdo da Venosa), scocca la prima goccia di Pollution – in una scabra meccanica di note che poi si riempirà della carne del mito – prima di divenire stillicidio nel capolavoro Sequenze e frequenze, diciassette minuti di deliquio elettronico, di proto-techno all’inizio di Sulle corde di Aries, e poi in Clic, quando No U Turn aprirà la strada non solo a Propiedad Prohibida ma anche alla techno di Proprietà Proibita, ultimo brano dell’ultimo disco in studio di Battiato (con Pino Pinaxa Pischetola), Joe Patti’s Experimental Group.
Qui, folate d’elettronica, di synth, e il ritmo incalzante, costante delle percussioni, in cui Battiato balla, sta ancora ballando, con scatti robotici e sinuosi, seriosi e canzonatori, al ritorno dal sogno.