A Ca’ Pesaro, in un’isola di quiete e silenzio fra installazioni, performance e ciclopici ritrovamenti in fondo al mare (veri o falsi) si può visitare, a Venezia fino al 28 maggio, la mostra William Merritt Chase, 1849-1916: un pittore tra New York e Venezia.

FIGLIO DI UN COMMERCIANTE di scarpe, Chase, dopo alcuni anni a Monaco, torna a New York nel 1879 dove, nel Tenth Street Building, allestisce uno studio: lo riempie di tappeti, copie di quadri, piante, arazzi, animali impagliati e chincaglierie di ogni tipo. Lo studio diventa, per alcuni anni, una factory in cui si fa arte, danza e teatro. E qui, fin da subito, Alice, moglie e futura madre di ben sei figlie, inizia ad assisterlo e a fargli da modella. I Chase conducono una vita piena di viaggi in Italia, Spagna, Olanda e Francia, ma anche fatta di tante quotidianità domestiche: bambine che giocano fra loro a casa (The Ring Toss, 1896) oppure che si affacciano nello studio del padre chiedendo di entrare (May I Come In?, 1883) o, infine, che prendono il sole su una spiaggia di Long Island (At the Seaside, 1892). E questo è quanto Chase dipinge: donne, bambine, ragazze di un grande universo femminile dal quale l’artista resta per tutta la vita affascinato. Certo, ci sono anche i ritratti femminili a figura intera: grandi e ufficiali, raffigurano donne moderne di quell’alta borghesia, sul genere Astor, Carnegie, Vanderbilt e Belmont, di cui Chase e la sua famiglia ormai facevano parte, l’alta borghesia che trascorreva il tempo libero a passeggio nei nuovi parchi di New York (Tompkins Park, Brooklyn, 1887 oppure By the Lake, Central Park, 1890) e la bella stagione sulle spiagge di Long Island (Idle Hours, 1894).

SONO TUTTE SUL PUNTO di voltarsi, di muoversi e di rivolgere una domanda a chi le guarda e intanto, in questo dialogo muto, i tessuti degli abiti si adagiano lungo i corpi flessuosi, i fiocchi si sfanno e i nastri si srotolano e sono come delle colate rosso lacca a volte punteggiate d’oro. Chase poi dipinge scene che spesso si svolgono entro inquadrature che egli non può non aver mutuato dal linguaggio fotografico del tempo: Alvin Langdon Coburn, Edward Steichen ma anche Gertrude Käsebier, che con Camera Work in quegli anni sperimentavano nuovi tagli e tecniche, creando immagini oniriche e sofisticate, comunque molto audaci, in cui un primo piano azzardato spesso sovvertiva l’ordine naturale delle cose. In Hide and Seek del 1888, una delle sue opere più belle, Chase sceglie di ritrarre, e lo fa bloccando l’immagine come fosse parte di una sequenza, due delle figlie mentre giocano a nascondino. Una, in primo piano a sinistra, fa da quinta e si affaccia in una grande sala cercando con gli occhi la sorella che, invece, è in fondo e che, per nascondersi, sta per scostare una pesante tenda nera dalla quale filtra una lama di luce.

FRA LE DUE BAMBINE si stende la grande superficie di un pavimento, liscio e vuoto: questo modo di concepire lo spazio, arioso e libero ricorda Las Meninas e Velazquez era, con Hals e Rembrandt amatissimo e molto studiato da Chase. Sembra inoltre esservi spesso, fra madre, figlie e spettatore un colloquio silenzioso fatto di frasi non dette che poi diventano titoli di opere: May I Come In? del 1883, I’m Going to See Grandma del 1889 o Did You Speak to Me? del 1897 in cui la figlia dodicenne, seduta nello studio del padre e immersa fra i quadri, si volta a guardarci sorpresa. E poi c’è il Giappone. Ventagli e kimoni sono ovunque, persino la sua bambina più piccola ne indossa uno minuscolo (My Baby Cosy, 1888): raccolte di stampe, sete sulle pareti, cuscini, stoffe e tappeti e ventagli, insomma tutto quel japonisme che spopolava in Europa e che Whistler, fra i primi, aveva adottato come principio-guida del proprio percorso artistico.

IL RAPPORTO DI CHASE con Whistler, importante ma sempre conflittuale, era controbilanciato dalla perfetta sintonia che lo legava invece al connazionale Sargent. Quando, trovandosi insieme proprio nello studio di Chase a New York per ritrarre la ballerina spagnola Carmencita esibitasi per la mecenate e musa ispiratrice di Sargent, Isabella Stewart Gardner, entrambi non possono fare a meno di ricordare Manet e la sua Lola de Valence decantata persino da un entusiasta Baudelaire.