In alcuni paesi dell’America latina la parola «gallego» è stata a lungo sinonimo di «español», e non c’è da stupirsersene, perché più del quaranta per cento dei quattro milioni di spagnoli che tra il 1860 e il 1930 arrivarono nel Nuovo Mondo erano partiti dalla Galizia, portando con sé un’indelebile morriña, ovvero un misto di nostalgia e rimpianto. Solo una minima parte di chi lasciava la Spagna scelse gli Stati Uniti: un’emigrazione presto diluita come «una goccia nell’oceano» tra comunità straniere più numerose, dice James Fernández, autore con Luis Argeo di una ricerca sugli Emigrantes invisibles: españoles en EE. UU – 1868-1945, all’origine di una magnifica mostra visibile in questi giorni a Madrid.

E INNUMEREVOLI particelle di quella «goccia» erano gallegos che si stabilirono a New York, dove organizzarono società di mutuo soccorso, svolsero lavori di ogni tipo e aprirono tavole calde e ristoranti. Fra i tanti modesti locali dove si servivano lacón con grelos e pulpo á feira, ce n’era uno appartenente a un certo Torres, che, arrivato nel 1913 da Samieira, vicino a Pontevedra, alcuni anni dopo tornò in patria per sposarsi e rientrò in America con la moglie, lasciando alle cure dei nonni il bambino nato nel frattempo. Solo nel 1936 i Torres decisero di farsi raggiungere dal figlio, per sottrarlo alla guerra civile, e fu così che il quindicenne Eliseo sbarcò a New York, pronto a diplomarsi e a frequentare l’università; solo tre anni dopo, però, avrebbe cambiato idea, decidendo di farsi mercante di libri spagnoli, in una città dove le librerie specializzate erano poche e la comunità ispanica andava aumentando.

PIÙ CHE AI LETTORI di madrelingua, in realtà, Eliseo mirava alle università e alle scuole, perché lo studio dello spagnolo, introdotto ad Harvard, Princeton e Yale già ai primi dell’Ottocento, negli Stati Uniti del ventesimo secolo non era più appannaggio di una minoranza; l’insegnamento della lingua, ma anche gli studi storici e letterari, si erano diffusi sia per ragioni politiche e commerciali, sia per la presenza di un ristretto e selezionato numero di intellettuali repubblicani invitati dalle Università (unico modo per farli entrare nel paese, perché il governo statunitense non riconobbe gli esuli spagnoli come rifugiati e a volte li trattò da pericolosi sovversivi), che avevano dato nuovo impulso all’ispanismo nordamericano. Importare libri dalla Spagna, però, era davvero difficile, e Torres li faceva arrivare soprattutto dal Messico e dall’Argentina, risparmiando agli istituti universitari lunghe trafile burocratiche.
Gli spazi della sua prima libreria, nella zona nord di Manatthan, e poi della seconda, in Lawrence Avenue, divennero presto insufficienti, stipati com’erano di volumi d’ogni genere: negli anni ’50, infatti, Eliseo poteva vantarsi di avere il più completo assortimento di libri spagnoli e latinoamericani di tutti gli Stati Uniti, e sulle sue fatture era impressa la dicitura «Libros de todas las editoras en español».

AVEVA COMINCIATO ad acquistare, oltre alle nuove edizioni, anche intere biblioteche e collezioni private, finché l’ultimo proprietario della celebre Las Americas, casa editrice e libreria creata nel 1940 dall’ispanista napoletano Gaetano Massa, ne mise in vendita l’intero vastissimo fondo, ed Eliseo, che sembrava ansioso di non lasciarsi sfuggire il più piccolo pezzo di carta stampato in spagnolo, lo comprò.
Torres era ormai proprietario di almeno un milione di libri (o forse più), che sistemò in un enorme edificio di mattoni all’angolo di Garrison Avenue, acquistato, pare, al prezzo simbolico di un dollaro. Situato in una delle più desolate zone del Bronx, era stato una fabbrica di lampade e aveva quattro piani, quaranta finestre che non venivano mai aperte e una porta di metallo nero senza insegna, targa o campanello.

[object Object]

BUSSARE energicamente era il solo modo per avere accesso a un luogo che lo scrittore spagnolo José María Conget descrive così: «Come un transatlantico incagliato nel Bronx, con la carta quale unico equipaggio, sembrava lo sfondo di un sogno di Borges: la grotta di Alì Babà di tutti i tesori letterari della nostra lingua». A parte gli uffici di Torres e di Martha, l’unica impiegata, ogni piano era occupato da scaffali metallici alti fino al soffitto, che formavano lunghi corridoi, pieni di libri pubblicati a partire dagli anni venti, di prime edizioni di tutti gli autori di lingua spagnola del novecento (quelle degli esuli repubblicani formavano un’esaustiva collezione a sé: la libreria era, in questo senso, una sorta di Arca che ospitava tutto quanto era stato censurato o proibito dal franchismo), di opere rarissime, di riviste introvabili.
E c’erano anche il centinaio di eleganti volumi della casa editrice Eliseo Torres & Sons, diretta da Emilio González López, che scelse saggi sulla letteratura spagnola e ispanoamericana per la raffinata collana Torres Library of Literary Studies, inaugurata dagli Escritos desconocidos de José Martí, a cura di Carlos Ripoll.

LA LIBRERIA, il cui indirizzo passava confidenzialmente di bocca in bocca, rappresentava insomma una fonte di scoperte, incanti e sorprese per studiosi, bibliofili e lettori accaniti, sempre bene accetti, e anche per altri mercanti, accolti invece con diffidenza. Il sivigliano Abelardo Linares, «cacciatore di libri» per la sua libreria antiquaria Renacimiento, fu bandito da un Eliseo ormai anziano perché aveva fatto acquisti per diecimila dollari, mostrandosi riprovevolmente avido («Se si ripresenta, non farlo entrare», ordinò alla fedele Martha, che filtrava gli ingressi).
Intorno alle eccentricità di Torres fiorivano aneddoti di ogni genere, veri e falsi, ma sempre suggestivi, che ne fecero il protagonista mancato di un romanzo ancora da scrivere. Raccontavano, per esempio, che con gli anni fosse diventato sempre meno libraio e sempre più un collezionista restìo a vendere, o addirittura un bibliomane – anche se non funesto come quello ritratto da Flaubert nel racconto Bibliomanie – tormentato dal «furore d’aver libri» e di accumularli all’infinito. E si diceva, inoltre, che trascorresse molte serate e quasi tutti i week end nella sua fortezza deserta, passeggiando tra gli scaffali come uno gnomo a guardia del proprio tesoro, o che stabilisse i prezzi a capriccio, secondo criteri imperscrutabili.

SOLEDAD GALLEGO-DÍAZ, inviata di El País, lo intervistò nell’aprile del 1993, già malato (morì pochi mesi dopo), ma lucido e intento a riflettere su quel che ne sarebbe stato, dopo la sua scomparsa, del fantasmagorico patrimonio cartaceo messo insieme in cinquant’anni. I quattro figli non volevano occuparsene, università e biblioteche avevano rifiutato per mancanza di spazio il dono di parte dei volumi, e vendere la libreria così com’era sembrava impossibile.
«Non ha paura che tutti questi libri finiscano venduti a peso?», gli chiese Gallego-Díaz, e la tranquilla risposta fu: «No. In fin dei conti durante la guerra civile si bruciarono tanti libri solo perché la gente potesse scaldarsi in inverno. È la vita». Eliseo Torres sembrava dare per scontato che lui e la sua creatura sarebbero scomparsi insieme («Chi può volere così tanti libri?») come se l’una non potesse esistere senza l’altro. Ma la storia meritava un altro finale, e lo ebbe.

IL PROSCRITTO Abelardo Linares (oltre che libraio, famoso poeta, sofisticato editore di narrativa e poesia, colto bibliofilo), appena saputo che gli eredi intendevano vendere l’edificio e liberarsi del contenuto, si precipitò a New York e convinse la vedova di Torres ad accettare un insolito accordo: avrebbe gestito gratuitamente la libreria per un anno, cercando di realizzare una determinata cifra destinata agli eredi, che gli avrebbero poi ceduto i volumi rimasti.
Mentre catalogava quello che Conget aveva definito «un fondo senza fondo», Linares riuscì a vendere quasi duecentomila libri, consegnò la cifra pattuita e si portò via il resto: duecentocinquanta tonnellate di carta stampata chiuse in container e imbarcate alla volta della Spagna. A Siviglia, Linares – che ora vende via internet- ha trasferito i volumi di Torres e i propri in tre immensi magazzini fuori città. Adesso è lui l’uomo dal milione di libri, che passeggia tra gli scaffali, ogni tanto si scopre riluttante a cedere qualche esemplare (quattro o cinquemila volumi della libreria Torres sono entrati a far parte della sua biblioteca privata) e afferma, lapidario: «I libri sono uno strano veleno, dannoso solo se preso in piccole quantità».