In Italia non siamo certo novellini quanto a sondaggi ko e notti elettorali. Tuttavia quanto accaduto martedì notte in America non ha precedenti.

Il «giornalismo 2.0» ha celebrato il suo funerale. Il racconto della realtà affidato a big data, guru della statistica, grafici in tempo reale, dissezioni minuziose dell’elettorato, valutazioni sabermetriche su ogni minima «issue» politica, è esploso come un pallone troppo gonfiato.

Tutti i media – giornali, siti Internet e network televisivi – hanno sbagliato previsioni e narrativa. Inseguendo una società reale tanto analizzata quanto sconosciuta.

Nessuno ha previsto quello che è successo. O meglio, qualcuno lo temeva: il figlio del Michigan Michael Moore, i nostri Celada e Portelli, pochi altri (per esempio qui e qui).

Per descrivere (e accettare interiormente) la possibilità della vittoria di Trump non servivano algoritmi ma cultura, conoscenza della storia e della società americana. Ingegno, non ingegneria editoriale.

Eppure la campagna presidenziale è durata più di un anno e mezzo. Seguita minuto per minuto da migliaia di professionisti. Nel reality non c’era Trump, ma i media. Noi.

Come ha ammesso ieri Jim Ratenberg sul New York Times, non «è stato soltanto un fallimento dei sondaggi ma l’incapacità di raccogliere la rabbia che ribolliva in larga parte dell’elettorato, tradito da Washington e dai media».

Osservare la lancetta ipnotica della «corsa dei cavalli» tra i due candidati dava l’illusione dell’immediatezza e della verità. Un formato giornalistico nuovo e interattivo. Moderno e «mobile». Eppure quelle stesse lancette martedì notte sono passate in 8 ore dall’83% per Clinton al 93% per Trump. Una «conversione a U» sbalorditiva. E vergognosa.

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La cartina interattiva sulle presidenziali del New York Times

Se i media non raccontano la realtà, cosa raccontano? «Tonight data is dead», ha ammesso attonito perfino lo stratega repubblicano Mike Murphy.

Questo errore campale si può spiegare solo in parte con la versione populista sulla «bolla delle élite» che avvolge anche i giornalisti. Un disastro mediatico così gargantuesco è avvenuto anche per scelte precise dell’industria dell’informazione, che ha decimato le redazioni di cronisti, soprattutto locali, e ha puntato sull’immediatezza del tweet o la superficialità del «poll» per cogliere le notizie sul campo.

Parlando più di Trump che dei problemi che lui prometteva di risolvere (disoccupazione, crisi dell’industria e del liberismo), i media non si sono consegnati nelle mani dei lettori ma in quelle degli attori, diventando più finti del più improbabile dei «reality show».

Cose che ho letto sul tema oggi, 10 novembre:

The Data Said Clinton Would Win. Why You Shouldn’t Have Believed It (New York Times)

In breve: i “data crunchers” danno la colpa ai sondaggisti, i sondaggisti agli elettori bugiardi, i giornalisti ai lettori che prendono per oro colato previsioni basate su decisioni molto complesse.

Alla fine, la verità è nelle parole di Thomas E. Mann (nomen omen?), un esperto elettorale della Brookings Institution: “Se tornassimo indietro al mondo in cui i reporter raccontavano i candidati, i partiti e le questioni in gioco invece di coprire in modo incessante ogni minimo sussulto dei sondaggi di opinione forse staremmo tutti meglio”.

Can the Media Recover From This Election? (New York Times)

Un forum che inizia a discutere la questione.

Here’s What Happened with the Latino Vote (New York Times)

E comunque insistono! Imperterriti. Spiegano il voto degli ispanici affidandosi solo agli exit poll, senza un solo virgolettato di un elettore “ispanico” vero, in carne e ossa. Perfino il titolo all’indicativo. Tutto come prima. Tutto come se nulla fosse (ed è lo stesso giornale che riflette sull’affidabilità degli exit poll eh!).

Altri spunti:

The lesson of Trump’s victory is not that data is dead. The lesson is that data is flawed (Wired)

Naturalmente Wired dice che il metodo è giusto. Ma che purtroppo non ci sono abbastanza dati. Né mai ce ne saranno. Un pezzo a metà tra il brillante e l’ovvio, IMHO.

This is our anti-Watergate (CJR)

Qui, più, interessante, la prima riflessione a caldo pubblicata sul sito della Columbia Journalism Review.

Almost everyone missed a Trump win. But VoteCastr’s real-time vote projections really blew it (ReCode)

Why botched election predictions don’t herald the end of data journalism (DigiDay)