«Si sono fatti grandi e faticosi viaggi per studiare i luoghi della scena dell’Iliade di Omero. A Roma io mi vedevo a cinque-sei leghe da Laurento, da Lavinio, da Ardea, dal campo dei Troiani, e avrei potuto in un paio di giorni percorrere la scena dei sei ultimi libri dell’Eneide…». Con queste esatte parole lo svizzero Karl Viktor von Bonstetten sfidava i lettori a una inedita avventura topografica, inaugurando all’inizio del diciannovesimo secolo un capitolo particolare, archeologico e virgilianista, del Grand Tour. Ma anzitutto chi era Bonstetten? Scrittore e studioso, pensatore, filosofo e umanista liberale, governatore distrettuale, membro corrispondente di tre accademie straniere, spirito curioso e poliglotta, conversatore cosmopolita… Si deve ricorrere a una rosa, per presentarlo. Nato a Berna da antica famiglia altolocata, e un po’ opprimente, allarga le vedute leggendo moltissimo, soprattutto classici del pensiero e della letteratura latini, francesi e tedeschi; ma è a Ginevra, dove si trasferisce diciottenne per proseguire gli studi, che comincia a intagliare la personalità, a coltivare le discipline (storia, diritto politico) frequentando le élites intellettuali. Così prende partito per Rousseau, nell’occhio del ciclone; è attirato nella sfera d’influenza del filosofo Charles Bonnet – decisivo anche in relazione al libro di cui ci occuperemo –, entra in contatto tra gli altri con Benjamin Constant e con Voltaire, recitando nel suo teatro a Ferney. Verso la fine del 1773 a Milano conosce il conte di Firmian e il circolo degli illuministi lombardi, i cui raggi anticlericali e riformisti erano giunti sino a Berna e a Ginevra.

Bonstetten venne una prima volta in Italia, fermandosi a Roma; vi ritornò dopo un breve esilio danese e il successivo rimpatrio in Svizzera, nell’inverno 1802-’03. Ora ha sui cinquantasette anni, essendo nato nel 1745. Sorta di enciclopedia a strati, sia a cielo aperto sia indoor (i musei, le collezioni), Roma tradizionalmente attirava viaggiatori e conoscitori. Si veniva per toccare con mano le antichità, i cui ‘materiali’ avevano nutrito negli ultimi due secoli – tre, se simbolicamente fissiamo lo starter sul ritrovamento del gruppo del Laocoonte vaticano – nuovi fasti sulla spinta di altri imperatori e mecenati, i papi architetti, urbanisti, collezionisti. Un’influente ideologia dell’antico, con il suo canone che impegnava scrittori e artisti, intellettuali e antiquari, costituiva il banco di prova decisivo per forgiarsi da moderni. A Roma Bonstetten porta con sé l’Eneide. La lègge per la quarta volta, contemporaneamente – confessa nelle note autobiografiche – all’illuministico Tramonto e caduta dell’Impero romano di Edward Gibbon, dando vita – si immagina – a un ping pong fiammeggiante. A quell’altezza la stella di Virgilio non è ancora entrata nel cono d’ombra dei romantici, e nuove iniziative editoriali stimolano gli artisti a incidere illustrazioni con le vedute dei luoghi del poema nel Lazio e nella Campania.

Non sappiamo se sia stato un ‘clic’ alla Spitzer ruminando Virgilio, fatto sta che ripensando da vecchio, a Ginevra, alla sua avventura intellettuale, Bonstetten attribuisce proprio a quella rilettura la molla a uscire dalla calamita Roma per intraprendere insieme a due amici danesi un itinerario a cavallo nella campagna circostante e lungo il litorale, allo scopo preciso di identificare i principali teatri della seconda metà del poema – proprio l’esade che avrebbe annoiato il giovane Leopardi –, aggirando per forza di cose ostacoli e pericoli da romanzo d’avventure, per la pressoché totale mancanza di strade, le insidie sottili di malattie come la malaria, gli appostamenti di ladri e briganti, la difficoltà di rifocillarsi e di procurarsi persino il pane, trovare asilo per la notte. Quasi ovunque regnano la desolazione, l’acquitrino e la palude; pastori smunti – puntini umani isolati nel deserto –, alcuni hanno nidificato su rovine affioranti, sempre che non siano state riconquistate dal fogliame, dalla natura; solo qualche polmone boschivo, eppure non scende la temperatura del cercatore d’oro, e l’oro è Virgilio.

Il 27 marzo Bonstetten lascia in calesse l’abitato di Roma muovendo dal Giardino di Malta, dove alloggia. Sùbito ci offre un piccolo presepio vivente: sono le sei e mezza di mattino, gli artigiani si mettono all’opera allestendo i loro ateliers mobili davanti casa. Le donne, a differenza dei bambini, restano a letto. Si tratta di letti molto grandi, annota, capaci di contenere tutta quanta la famiglia («si dice che vi dormano interamente nudi»), ma soltanto metà della popolazione ha dove coricarsi. Già prima delle sette entrano in funzione le cucine, il popolo mangia «en public». I negozi sono tavoli per la strada ricolmi di pesce fresco, che viene fritto sul momento. Spuntano i mendicanti, con la padella e le elemosine del giorno prima. A Roma sono una tribù – scrive – con le sue leggi, le sue regole: ciascuno ha un proprio angolo assegnato, che si trasmette per eredità… È questo l’incipit del reportage, con la sua forte coloritura sociologica che risponde meno al bozzettismo dello scrittore che all’interesse antropologico dello studioso.

Dal viaggio all’edizione del libro è trascorso poco tempo. «…Ristabilitomi a Ginevra – scriverà anni dopo – sentii di poter fare a meno della lingua tedesca e Madame de Staël, che con la sua amicizia esercitava un enorme influsso su di me, mi persuase a scrivere in francese. Il mio libro sul Lazio fu la mia prima opera redatta in questa lingua. Lo composi sulla base di appunti in tedesco. A Roma avevo steso le bozze di quattro mete, già pensando alla loro pubblicazione: il Lazio, Palestrina, Anzio e Licenza, la tenuta di Orazio» (progetto editoriale solo in parte realizzato, fra l’altro il manoscritto sulla villa di Orazio è andato disperso). È il 1804, dunque, quando viene pubblicato a Ginevra Voyage sur la scène des six dernier livres de l’Enéide. Sùbito attenzione alle date, che stringono l’ignaro Bonstetten nell’impari confronto con il genio romantico di Chateaubriand, la cui Lettera sulla campagna romana al signor de Fontanes esce proprio nello stesso anno sul «Mercure de France», precisamente nel numero del 3 marzo. Anche se alcuni tableaux paesaggistici suggerirebbero accostamenti – come si fa con due fotografie del medesimo panorama scattate da mani differenti –, il viaggio dello svizzero impallidisce al cospetto del folgorante testo di Chateaubriand – del quale Sainte-Beuve sosteneva che, in prosa, «il n’y a rien au delà». E tuttavia la concomitanza e l’abissso, non solo ‘di stile’ ma anche ideologico, costituiscono una provocazione interpretativa, perlomeno per il lettore venuto due secoli dopo. Non si è sottratto per esempio Michel Dentan, curatore di un’edizione moderna del Viaggio nel Lazio prestatami dall’amica Sandra Pinto (col batticuore che procura il veder uscire certi libri piccoli ma rari dalla propria biblioteca, sia pur temporaneamente): ‘l’osservatore Bonstetten, scriveva Dentan nel 1971, vi si rivela poeta, di una poesia molto differente da quella di Chateaubriand: lungi dal cercare il pittoresco per dipingere quadri sorprendenti di magnificenza, egli si attiene alla descrizione esatta di quel che vede’.

Colpisce in Bonstetten l’appuntito e insieme sereno, connaturale, spirito di osservazione, nonostante resti sottomesso a una delle tesi di fondo più forzatamente a priori: il primato della Natura sui ‘monumenti’ («gli uomini e le nazioni passano, la natura resta»). L’osservatore non si fa sopraffare facilmente però dallo scrittore o dall’intellettuale, con le loro digressioni enciclopediche e teoriche nutrite di valori moderni. E comunque la traiettoria filosofica riporta sempre inesorabilmente a qualche esametro dell’Eneide – trascritto a tavolino, in fase di montaggio – e alla sua ‘poesia di verità’. Sembra un Virgilio omerico, quasi onnisciente, ma per Bonstetten è la Storia stessa – come già sosteneva Dionigi di Alicarnasso, spesso chiamato in causa – a fornire le prove della leggenda di Enea, che esule da Troia sbarcò in Italia per dare una nuova dimora agli dèi Penati, strinse alleanze, fece la guerra, uccise Turno in duello, sposò la figlia di Latino Lavinia, e finalmente fondò una nuova città e una nuova discendenza gloriosa. Lo scacchiere delle origini di Roma è ancora qui, possiamo calpestarlo. Il profilo dei Castelli, il fiume, il cielo, la linea dell’orizzonte sul mare tra Fiumicino e Anzio, quel che gli eroi dell’Eneide vedevano non si è mai mosso; e sotto la coltre paesistica lavorata dai secoli e dalla lunga decadence, affiora quasi intatta, chilometro dopo chilometro, anzi lega dopo lega come in Jules Verne, la ‘scena’ antica del poema. Se i valorosi viri della Roma repubblicana venivano messi in cornice da David e dai pittori di Storia per parlare ai contemporanei, in Bonstetten i protagonisti dell’Eneide tornano con il guizzo altrettanto esemplare – senza tempo – delle loro vicende, e s’accampano scaglionati non dalla sequenza del poema ma dalle tappe del viaggio: Ostia, il campo di Enea, il campo di Turno, la reggia di Latino, Laurento e la selva popolata dai cinghiali (anche Virgilio ha una famosa similitudine col cinghiale), Lavinio, Albunea con le sue acque lattiginose, ritrovata e ‘rimessa al proprio posto’ correggendo Servio. Così, ad esempio, nella ricostruzione topografica della sortita ‘militare’ di Eurialo e Niso (IX libro) Bonstetten ha modo di verificare la «parfaite connaissance du terrain» da parte del poeta, ma non può ignorare che anche il Tevere ha «ses ruines», il suo antico letto ora si chiama Fiume-Morto: occorrerà tenerne conto, per localizzare con precisione l’accampamento degli Eneadi (chiamato «Troja»), con il lago formato dal fiume moderno alle spalle, e il mare in faccia, un po’ spostato a destra.

Far rivivere Virgilio nella (nonostante la) desolante attualità in cui è in gran parte precipitato il suo set, sembra questo il mandato letterario di Bonstetten. Se nel testo di Chateaubriand sentiamo pulsare la tensione stilistica delle equivalenze verbali (non è più possibile descrivere la meravigliosa campagna romana senza rifarsi alla luce fissata un tempo da Poussin e Lorrain), lo svizzero è divorato piuttosto dalla voglia di ritrovare dopo diciotto secoli il dettato virgiliano, di mettere a registro i panorami, anche quelli per niente idilliaci, attraverso il testo dell’Eneide, calcolando le eventuali correzioni imposte dal progresso della natura e ricorrendo quando è necessario alla filologia ufficiale, dal commento di Servio a quello di Heyne, un’auctoritas recente. Questa è la selva in cui Fauno, il padre di Latino, ammonì a non cercare «nozze latine» ma ad attendere sposi venuti da lontano; nelle acque limpide del parco di Castel-Fusano dovevano esserci in antico le sorgenti del Numico, dove è fama sia scomparso Enea, transitando direttamente in cielo; un santuario di Sant’Anna, incontrato sulla via del ritorno a Roma, apre a una lunga digressione ovidiana su Anna Perenna, celebrata nelle idi di marzo, e sul mito della sorella di Didone…
Bonstetten sembra cercare nella poesia classica soprattutto il motore conoscitivo, più che estetico. Omero – osserva – attinge alla medesima fonte di Erodoto e Diodoro Siculo, siamo noi moderni ad avere separato la Storia dalla poesia, la verità dalla finzione; «la poesia presso gli Antichi rivelava fatti troppo lontani per essere percepiti dagli occhi dell’uomo qualunque…». È quasi una posizione neo-esiodea? Le Muse hanno affidato al poeta il compito di «dire il vero», perciò la «véritable poésie» dovrà cercare, come fecero Omero e Ossian (due cuspidi del canone dell’epoca), «la verità in tutta la sua energia, in tutta la sua armonia con la natura…». Ora, sull’Italia ai tempi di Troia, riconosce Bonstetten, Virgilio aveva a disposizione ben pochi ‘monumenti storici’ certi. Se Omero è stato il primo degli storici in quanto «ha dipinto meglio di chiunque altro i costumi della gente di cui parla» – costumi sia in senso morale sia in senso fisico –, lo ‘storico’ Virgilio è riconoscibile soprattutto per il suo tatto: il medesimo tatto «che lo fa poeta». I regnanti italici, per esempio; Mezenzio; Mètabo padre di Camilla; lo stesso Latino, non sono certo farina di Omero, «è nel Lazio che il poeta latino aveva trovato i costumi e le usanze dell’Odissea e dell’Iliade».

Questo genere di osservazioni sulle fonti storiche della poesia virgiliana e, altrove, sulle leggi universali de l’histoire de l’homme, scandiscono il Voyage senza significativi salti logici o disciplinari, paiono anzi ingranate dalla dinamica che Bonstetten istituisce tra i versi dell’Eneide e i siti laziali attuali, quasi senza soluzione di continuità. Persino il più piccolo dettaglio naturalistico può essere dunque ritrovato e riconosciuto dopo diciotto secoli. È una posizione che oggi facciamo fatica ad accogliere, tuttavia è onesto ricordare qui che proprio a Viktor von Bonstetten gli stessi virgilianisti hanno fatto risalire la ‘disciplina’ della topografia dell’Eneide. Altri seguirono, Boissier e, con un più specifico bagaglio storico e antiquario, Ehrlich e Ritter, verso la fine del secolo ‘tedesco’. Quel che poi il Novecento, perlomeno a partire da Heinze, ha via via definitivamente mutato nella interpretazione del poema è proprio la sua (presunta o probabile) veridicità topografica – se così possiamo chiamarla avendo acquisito la consapevolezza del ruolo giocato dall’arredo geografico e paesaggistico nell’economia compositiva e nei suoi effetti ideologici. In altre parole, non è affatto necessario, anzi è quasi sempre sconsigliabile, ‘recarsi sul posto’ per comprendere il significato profondo di quel che il testo recita. Per questo dobbiamo sospendere un po’ la nostra incredulità, leggendo l’autoscopia di Bonstetten. La fede assoluta nella corrispondenza topografica di Virgilio vi è più volte enunciata, ma oggi nessuno leggerebbe più l’Eneide sfoderando una simile ingenuità narratologica e trascurando quasi del tutto le convenzioni letterarie e l’officina del poeta, sia pure di un poeta così ‘naturalista’. Da tempo tra i virgilianisti si sono assottigliate le file di quanti ancora negli anni sessanta e settanta ‘credevano’ all’Eneide come documento storico con validità etnografica e paleologica.

A ciò dovremmo aggiungere perlomeno un’altra considerazione: il rinnovamento del mito da parte di Virgilio, non soltanto in certe sfumature erudite, ‘alessandrine’, ma per esempio in relazione a snodi strutturali del poema come lo sbarco di Enea nel Lazio («Troiae qui primus ab oris // Italiam fato profugus Laviniaque venit / litora»), alla cui esatta determinazione il Voyage di Bonstetten dedica peraltro molte pagine e meticolose misurazioni. La versione tradizionale del mito voleva che le navi di Enea dirette alla terra promessa sbarcassero vicino a Lavinium, l’attuale Pratica di Mare (altra tappa obbligata, con pagine tra le migliori); nel racconto di Virgilio invece, sin dalla profezia di Creusa nel II libro, esse approdano alla foce del Tevere, una ‘location’ che nell’economia del poema avrebbe facilitato il viaggio da Evandro, il primo alleato indicato anche dalla Sibilla. «Virgilio giuoca col mito come un gatto col topolino» ha affermato con umorismo uno dei suoi più profondi conoscitori, Nicholas Horsfall; e pescando in un altro campo metaforico aggiunge: il mito è per lui «come l’argilla per il vasaio: può diventare o una statua di Venere o un cantaro». Proprio Horsfall ha dimostrato che Virgilio – probabilmente per mettere in luce migliore Lavinium nella sua strategia genealogica – non ha mai assegnato un nome specifico alla città di Latino, la Laurento della vulgata, cui Bonstetten dedica con zelo ed entusiasmo una ricognizione di diverse pagine, teste Plinio, uno dei sapienti irrinunciabili.

Queste rivelazioni non tolgono certo il gusto antiquariale e sbrigliato della lettura, quell’ostinazione nel mettere una dopo l’altra le bandierine virgiliane nel Lazio percorso al trotto («quasi mai al galoppo», dice a un certo punto), tra nuovi selvaggi alla Rousseau, relitti umani, cappuccini gesticolanti: come un botanico che piazzi i suoi cartellini col nome scientifico in latino alla base delle piante di una riserva naturale, Bonstetten ritaglia gli esametri. Da questo punto di vista l’utilizzo nel testo dei passi virgiliani è puramente ‘confermativo’ della sua inchiesta sul campo, non comporta quasi mai slittamenti interpretativi. Naturalmente questa compattezza quasi trans-storica non deve farci dimenticare nel corso della lettura di manovrare, con un po’ di ‘critica della ricezione’, le lancette dei vari orologi che idealmente abbiamo davanti (l’ora di Virgilio, l’ora del Mito, l’ora di Napoleone…). Bonstetten, dal canto suo, passa da un quadrante all’altro con grande disinvoltura. Uscendo da Roma egli incontra la vecchia Porta Trigemina, che adesso si chiama San Leone, – «dove anticamente Coclite difese il primo ponte dell’urbe, che separava i romani da Porsenna e dall’esercito di Tarquinio». In quel mentre, osserva, «un vascello russo carico di grano dalla Crimea risale il Tevere». Commento: «tre, quattromila anni fa si componevano poemi epici per celebrare Enea, Agamennone o prima ancora Giasone per aver fatto la guerra fuori dal loro piccolo mare; oggi si va senza gloria dalla Colchide a Roma». No, non è il pennello di Chateaubriand.