Se, come dicono, le colline di Hollywood sono fatte di cadaveri di scrittori, difficilmente Cormac McCarthy farà mai parte di quella infelice schiera. Comparato alle disgrazie di chi lo ha preceduto, il suo caso rappresenta un’eccezione.

L’esempio funesto che solitamente si porta per illustrare i tormentati rapporti degli scrittori con l’industria del cinema è quello di Fitzgerald, che però fa anch’esso storia a sé, seppure per opposti motivi. Quando tentò di risollevare le proprie sorti dandosi alla sceneggiatura, l’autore del Grande Gatsby era infatti sull’orlo di un tracollo emotivo e finanziario; il suo fu dunque un fallimento per molti versi annunciato, inevitabile quasi, forse persino cercato.

Termine di paragone ben più appropriato è invece il caso Nabokov.

L’adattamento cinematografico di Lolita generò un capolavoro, uno dei tanti di Stanley Kubrick, ma il copione che lo scrittore presentò inizialmente al regista va ricordato come uno tra i più strambi mai scritti. Pare vi fossero contenute battute per il cane, una serie di «bau bau» con tanto di indicazioni affinché la bestiola abbaiasse con la giusta intonazione. Nulla tuttavia al cospetto della mole del copione (quattrocento pagine).

Quando Kubrick osservò che un film di sette ore non era un’opzione praticabile, Nabokov reagì alla sua principesca maniera. Non si scompose ma faticò a cogliere il punto delle obiezioni che gli venivano mosse, perlomeno stando alla laconica morale che ne trasse: «Lui vedeva il romanzo in un modo. Io lo vedevo in un altro».

Nabokov sbagliava, ovviamente. Kubrick non vedeva affatto il romanzo in modo diverso. Semplicemente non lo vedeva più come un romanzo, ma come qualcosa che doveva diventare un film.

Nello sbaglio di Nabokov è condensato l’equivoco che ha complicato il rapporto di tanti scrittori col cinema. E se simili fraintendimenti non hanno impedito a molti romanzi di giungere al cinema, né a molti scrittori di lavorare a una sceneggiatura, hanno però precluso a questi stessi scrittori – perlomeno a quelli di un certo calibro – di entrare a Hollywood dalla porta centrale, ovvero di vedersi produrre un testo originale, concepito appositamente per il grande schermo.

L’impresa è riuscita a Cormac McCarthy e – fatto forse ancor più straordinario – non facendo tesoro degli errori di chi lo ha preceduto; McCarthy c’è riuscito ripetendoli per filo e per segno, ma consapevolmente, facendone un’estetica filmica.

Si obietterà che partiva da una posizione favorevole, giacché non soltanto godeva della rendita derivante dal successo degli adattamenti di Non è un paese per vecchi e della Strada; contava anche sul suo immaginario, un immaginario fatto di violenza ancestrale, di grandi spazi selvaggi, di umori apocalittici. L’Arcadia sanguinolenta di McCarthy non offre forse su un piatto d’argento la possibilità d’illuminare di letteratura l’America che certa Hollywood adora raccontare, l’America che affonda le sue radici nel secondo emendamento?

Tutto vero, ma simili osservazioni, seppur pertinenti, dovrebbero tenere conto di un altro dato. McCarthy non è giunto al cinema per caso, perché baciato dal successo; ci è giunto da grande appassionato e dopo essersi cimentato più volte nella stesura di copioni (se ne contano ben tre nei suoi archivi).

Lo stesso Non è un paese per vecchi fu scritto dapprima come sceneggiatura, divenendo romanzo soltanto in un secondo momento. Nonostante ciò, nonostante la sua confidenza coi meccanismi narrativi hollywoodiani, McCarthy non ha dismesso i panni dello scrittore.

Difficile infatti concepire qualcosa di più anticinematografico di The counselor (Einaudi «I coralli», traduzione della sempre impeccabile Maurizia Balmelli, pp. 120, euro 14,50).

A dispetto del fumoso succedersi di scene infarcite di ridondanti dialoghi che non portano a nulla, l’intreccio, se così vogliamo chiamarlo, è di una semplicità disarmante. Un legale varca il confine dell’illegalità, avventurandosi in uno sconsiderato affare di droga che si conclude nel peggiore dei modi: un catartico bagno di sangue.

In un copione convenzionale si comincerebbe col mostrare il legale quando è ancora una persona rispettabile, con un buon lavoro e una bella famigliola; uno come noi, anzi quasi come noi, giacché non si può negare che tra noi e Michael Fassbender qualche differenza sussiste. Dopodiché si scoverebbe un motivo che incrini l’invidiabile quadretto; un’amante esigente, un debito di qualche tipo, o magari entrambe le cose. Infine l’occasione che fa l’uomo ladro, ovvero il problema minore, perché a un penalista non dovrebbe certo far difetto la possibilità di frequentare cattive compagnie.

L’efficacia di una narrazione cinematografica di questo tipo consiste solitamente nel rendere palpabile il progressivo distacco del protagonista dal consesso delle persone perbene. Il pubblico deve biasimarlo e comprenderlo al contempo, e perché ciò sia possibile il mutamento deve procedere di pari passo con l’azione e soprattutto avvenire per gradi, in un crescendo di intensità.

McCarthy non fa nulla di tutto ciò. Mette lo spettatore davanti a una serie di fatti già compiuti, sicché quei pochi che ancora debbono compiersi giungono per ragioni inspiegate, quasi metafisiche.

Per dirla più chiaramente, McCarthy si guarda bene dall’illustrarci come i personaggi siano arrivati a essere quello che sono; sembrano non avere passato (il procuratore non ha nemmeno un nome) e soppesano ogni cosa, a cominciare dal pasticcio in cui si sono ficcati, come fosse un paesaggio che stanno contemplando. Parlano di sesso, di avidità, del precipitare degli eventi, ma ne parlano come fossero questioni filosofiche o profezie che si avverano.

Essendo il contrario di quel che un copione di questo tipo dovrebbe essere, la critica americana non è stata tenera. Qualcuno ha consigliato all’autore di acquistarsi un manuale di sceneggiatura, il che è ridicolo.

McCarthy sa perfettamente come si scrive una sceneggiatura e sa anche concepire immagini d’effetto, prova ne sia la scena dell’amplesso col cofano di una Ferrari confezionata per Cameron Diaz.

Il giudizio andrebbe dunque perlomeno sospeso, riconoscendo a McCarthy l’integrità di non aver derogato al tono profetico, declamatorio, da coro tragico, che da sempre gli è proprio. Che da un simile tono – un tono che riduce la narrazione a espressione di un fato ancestrale – possa discendere un buon film è naturalmente altra questione. Ma per far spazio tra le colline di Hollywood c’è ancora tempo.