L’ozio, per i romani, era quel tempo liberato dall’affanno di dover stringere affari (negotia) o patti politici. Era un tempo per lo studio, lo svago, le letture, qualcosa che oggi – in epoca di selvaggio trumpismo generalizzato – sembra attività assai provocatoria e controcorrente. Si apre così, all’insegna dell’improduttività beffarda, la 57/ma esposizione internazionale d’arte veneziana, curata dalla parigina Christine Macel, Viva Arte Viva, una timoniera che eredita un compito impervio: alleggerire il peso della Storia, dopo la Biennale di Okwui Enwezor imperniata sul Capitale di Marx, profittatori e perenni sfruttati. C’è pure chi ha interpretato alla lettera questa necessità svaporante: il danese Soren Engsten, per esempio, si è dato ad amene pratiche di lievitazione indiana.

MA COSA C’È DI MEGLIO se non presentare come opera apripista, nel Padiglione Centrale ai Giardini, l’immagine di un artista steso su un letto che sonnecchia deliberatamente e che invece si considera – come recita il titolo – un vero Artist at work? La rivendicazione della «nullità» arriva dal serbo Mladen Stilinovic, importante figura del concettualismo anni ’70, che realizzò quella sua serie dormiente poco prima della morte di Tito e della disgregazione jugoslava.

Macel ha immaginato la sua mostra in capitoli riassuntivi che si concatenano via via che si procede lungo le Corderie – e molti sono gli inventari disseminati, li ritroviamo anche tra i padiglioni nazionali, l’ansia classificatoria aleggia ovunque, così come la ricerca delle proprie origini e gli omaggi sparsi ai «nativi» – ma il nuovo umanesimo annunciato si è smarrito nell’etere. Si è fatto impalpabile, ha preferito inverarsi nella musica. Perché l’intreccio di suoni, rumori, fischi tribali o versi animaleschi sono infiniti in questa rassegna, che a tratti si trasforma in una foresta, metafora dell’ultimo avamposto per la salvezza.

questo faceva suonare carta da parati con carillon. Lui albanese Anri Sala è un grande
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L’UDITO È IL SENSO principe, a testimonianza di un desiderio di fuga dall’attualità stringente che però torna nelle barche dei migranti che vediamo invadere l’immaginario degli artisti o nei rifugiati in carne e ossa che lavorano alacremente al progetto Green Light di Olafur Eliasson, creando lampade che poi venderanno. Eppure le note si rincorrono, ritmicamente battono il tempo dell’esistenza. In qualche caso, addirittura c’è chi riesce a far suonare la carta da parati con un vecchio carillon (l’albanese Anri Sala) o l’acqua stessa. Marcos Avila Forero è andato a girare lungo le rive dell’Atrato, fiume le cui sponde sono abitate da comunità afro-colombiane: molti sono abili percussionisti e l’artista ha deciso di far rivivere la loro tradizione con un concerto dove gli indigeni «battono» le onde trasformandole in tamburi.

Il franco-algerino Kader Attia documenta invece con libri, copertine, voci – pure transgender – la tradizione musicale del medioriente e del nordafrica, affidando quella speciale educazione sentimentale alla semola di couscous che viene agitata dalle onde elettromagnetiche provocate dal canto: è il suo tributo creativo alle scoperte del fisico Chladni del XVIII secolo. La sua è un’agorà dell’ascolto emozionale. In un mondo lacerato, frammentato, chiuso da frontiere invalicabili, il concetto di agorà riscuote un gran successo nella mostra in Laguna.

LA REINTERPRETA PURE, con le sue architetture mobili e organiche, il brasiliano Ernesto Neto nel padiglione degli Sciamani: con l’aiuto degli Huni Kuin, popolazione amazzonica, indice una cerimonia spirituale dove i guaritori mirano a curare il disagio sociale. E nella giornata di inaugurazione, i capi Huni Kuin erano lì, seduti in cerchio con il pubblico, per una improbabile catarsi collettiva.
A scandire ritmicamente la volatilità del tempo ci pensa anche l’americano Charles Atlas: lui che ha lavorato in passato con il danzatore e coreografo Merce Cunningham, questa volta filma il ballo di luce dei tramonti (44 per la precisione) per poi riprendere un enorme orologio digitale che fa scorrere alla rovescia i 18 minuti che impiega il sole a essere inghiottito dall’orizzonte.

La stanza di Kiki Smith (padiglione centrale, Giardini)
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UGUALMENTE SEGNANO il «battito» una miriade di fili, tessiture di vita impregnate dell’inesorabilità della morte (la mitica Atropo): per sottrarsi al taglio fatale, si cuce tantissimo in questa Biennale, con telai, a mano libera, in disegni archetipici di tappeti. Lo fa il taiwanese Lee Mingwei, seduto al suo tavolo davanti a un muro costellato di rocchetti colorati, invitando i visitatori a farsi riparare i loro vestiti strappati. E lo ha fatto nel passato Maria Lai, «scucendo» i contorni delle favole e delle tradizioni sarde per allestire nuove trame (a lei è dedicato un meraviglioso tributo), mentre lo continua a fare uno dei pochi artisti italiani invitati, Michele Ciacciofera, nuorese, che insegue la leggenda sarda delle janas, le fate, da sempre poetiche presenze invisibili nelle opere di Lai.

NONOSTANTE LA RESISTENZA alla cronaca, il set della Biennale accoglie molte macerie e manifesta un’urgenza di fare spazio – proprio scultoreo – alla memoria, con oggetti apparentemente insignificanti che prendono le sembianze di una discarica del ricordo (l’installazione dell’argentina Liliana Porter).

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IL PIÙ MALINCONICO, di ricordo, è quello messo in scena dal giapponese Shimabuku. Racconta il suo incontro con le scimmie delle nevi di Kyoto e poi la loro deportazione in Texas, nel deserto. All’inizio, gli animali non riuscivano a sopravvivere e gli esemplari diminuivano, poi però invertirono la tendenza, cominciarono a crescere di numero: le scimmie si erano adattate, avevano imparato a difendersi dal seprente a sonagli e a mangiare cactus per nutrirsi. Shimabuku, molti anni dopo, le va a trovare per offrire loro una montagna di ghiaccio. Ne avranno memoria ancora o hanno «venduto» la loro identità? Il tema della perdita e dell’esilio torna prepotentemente anche nei video del brasiliano Ayrson Heraclito: in O Sacudimento da Maison des Esclaves em Gorée, il luogo è la casa di reclusione degli africani in attesa del trasferimento dall’isola senegalese di Gorée alle colonie portoghesi.

UN UOMO BATTE I MURI con ramoscelli e foglie per cacciare gli spiriti maligni. Un esorcismo che, in fondo, pratica pure il giapponese Koki Tanaka, quando registra il suo viaggio di quattro giorni a piedi per andare dalla sua casa alla centrale nucleare vicina. Ma lì, non esistono bacchette magiche né pensieri apotropaici per scongiurare il disastro.