Non sarà solo una coincidenza che La belva nel labirinto (Bollati Boringhieri, pp. 327, euro 17,50), ultima indagine del vicequestore Melis, sia giunta in libreria con appena qualche settimana d’anticipo sul nuovo, variegato saggio di Hans Tuzzi, Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore (sempre Bollati Boringhieri, pp. 166, euro 14,00). Dove Tuzzi, che è romanziere tout court, spiega com’egli continui a sentirsi a proprio agio – cioè a muoversi col dovuto disagio – nelle maglie del suo «genere» d’elezione, ricordando quando, ventenne, era capitato nel giro di pochi giorni su due trafiletti di cronaca nera: «Il primo riportava che i cadaveri di sei bambini tra i quattro e i sei anni erano stati trovati sugli spunzoni della cancellata di un parco pubblico. Il secondo, che alcuni bambini di sei anni avevano costretto una ottuagenaria a danzare nuda uccidendola a bottigliate». In una pagina famosa dei Fratelli Karamazov, Dostoevskij (che Tuzzi cita più volte, non solo nella Belva nel labirinto) trovava impossibile giustificare la sofferenza dei bambini; cui qui si aggiunge, in brutale contiguità, la sofferenza inflitta dai bambini… E attenzione, quei trafiletti provenivano «dalla patria di Shakespeare», il poeta per eccellenza delle «età dell’uomo»: se la prima e l’ultima sanno esser tanto crudeli una con l’altra, in che infernale labirinto potranno mai vagare le età di mezzo, trascinate da adulti (e adulterati) appetiti oltre che dalla loro ferina innocenza?
Nell’estate dell’87, la squadra di Melis è impegnata a indagare su una serie d’omicidi apparentemente affatto disgiunti: quelli di un sacerdote di frontiera («No, si disse Melis» – l’ateo Melis, con accorato rispetto: – «don Tomat non era uno di quei preti passati dal divino al divano»), di un transessuale di mezz’età, di due giovani d’opposte simpatie politiche (all’epoca, destra e sinistra avevano ancora un senso), di un professore (anzi un assistente – dettaglio che, nelle piccolezze della gerarchia accademica, ha la sua importanza…) di giurisprudenza. Che la mano sia sempre o quasi la stessa è suggerito dalla carta dei Tarocchi lasciata accanto a ogni cadavere, e Norberto Melis comincia a ronzare attorno ai probabili assassini fin da subito, con l’impotente, dolorosa percezione che il «male» – quanto mai rozzo, come sempre – esigerà il sacrificio di altri innocenti prima di tradirsi in tutta la sua agghiacciante banalità.
Gli affezionati di Melis – che ormai sono in buon numero, anche se sempre happy few – il nuovo romanzo se lo saranno gustato (ricette improvvisate della sua compagna, la bibliofila Fiorenza, incluse) ancor prima che gli cada lo sguardo su questa recensione. Ai neofiti raccomanderei di cominciare da indagini più snelle, come Il principe dei gigli (2005) o L’ora incerta fra il cane e il lupo (2010); o qui certi autocompiacimenti dell’autore – che stavolta mi sembra abbia ecceduto nei siparietti comici in vari dialetti – rischierebbero di disaffezionarli, privandoli di alcune delle più raffinate, serie soddisfazioni narrative di questi anni. A meno che ad apertura di libro non capitino proprio su una pagina indimenticabile come quella della «benedizione degli animali» – quando il 4 ottobre «tutte le fiere dello zoo» («Non le belve, è ovvio»), «giraffe elefanti struzzi e dromedari sfilavano su per via Moscova … uno dei ricordi di stupore e incanto della giovinezza» di Melis –, una pagina che basterebbe da sola a confermare Hans Tuzzi come il miglior «cantore di Milano» attualmente in circolazione.
Allo stesso modo non mi sento di raccomandare Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore agli aspiranti giallisti più innocenti, quelli in cerca della formula del best seller, che per trovarla sarebbero disposti anche all’omicidio… Ma il titolo sornione è fin troppo eloquente: le lezioni che si trovano qui raccolte sono una delizia per chi sia disposto a lasciarsi istruire dalla tavolozza di un autore che la storia del romanzo l’ha tutta sulla punta delle dita: «Ut pictura poesis ripetiamo da duemila anni. Eppure ci stupisce Flaubert quando scrive: ‘Salammbô è un romanzo color porpora, Madame Bovary color pulce’».