Dopo una gestazione lunga e sofferta, l’altro ieri il governo ha annunciato enfin la felice novella: è stato approvato un ddl (disegno di legge delega) per la soluzione di tutti i mali in capo alla giustizia civile. Il tono dell’annuncio, essendo piuttosto trionfalistico, lasciava intendere un uguale contenuto. Invece, scorrendo la «scheda», si potrà notare che la completezza non è la carta vincente dell’iniziativa.

Scorriamo rapidamente i punti più importanti.

La parte relativa alla delega concessa al governo tocca principalmente aspetti del rito processuale e dell’accesso alla giustizia. Fra i primi ci sono: il potere del giudice di «disporre, quando si tratta di causa semplice, il passaggio dal rito ordinario di cognizione al più snello rito sommario; la possibilità di usare le motivazioni di primo grado da parte del giudice di appello nel caso di conferma del provvedimento; il giudice monocratico (e non collegio) per alcune materie non complesse nel grado di appello; l’anticipo di una perizia che quantifichi il danno lamentato in premessa della causa in materie «ad elevato tasso tecnico»; il permesso di cercare «con modalità telematiche» i beni da pignorare da parte degli ufficiali giudiziari, interrogando anche l’anagrafe tributaria; maggiori responsabilità e valorizzazione «dell’attività dei difensori». A proposito dell’accesso alla giustizia, va segnalato il potere del giudice di decidere la lite in primo grado «mediante dispositivo accompagnato dai fatti e dalle norme», lasciando alle parti la scelta se chiedere la motivazione per esteso «previo versamento anticipato di una quota del contributo dovuto per il grado successivo».

Fra i primi ad applaudire, si registra Andrea Mazziotti responsabile giustizia di Scelta Civica: «Devo dire che si va nella giusta direzione, sia con le semplificazioni sulla fase di decisione che con le norme per scoraggiare le cause in materia di risarcimento dei danni causati da circolazione dei veicoli e da responsabilità medica». Si spera che Mazziotti sia stato frainteso e intendesse le cause «temerarie», e non tutte quelle che, magari a ragione, chiedono alle assicurazione di onorare i patti che invece non rispettano.

Due sono i punti su cui, in particolare, si appunteranno le ostilità della classe forense. Una è stata già aperta dal presidente dell’Oua, Organismo Unitario dell’Avvocatura, Nicola Marino: «Inaccettabile la motivazione a pagamento assolutamente in contrasto con l’articolo 111 (comma 6) della Costituzione. Così si limita la possibilità per una vittima di poter ricorrere contro una sentenza sbagliata, se non pagando ulteriormente per la tutela di un diritto». Ottima obiezione.

Inoltre, il governo blandisce con dati statistici l’introduzione di questa misura: sono soltanto il 20% le sentenze impugnate in appello e di queste il 77% viene confermato. Non discutiamo le statistiche ma facciamo notare che, in Italia, sono le motivazioni delle sentenze a fare giurisprudenza spesso meglio di quanta ne facciano le (pessime) leggi emanate da un parlamento che raramente dimostra di essere all’altezza del compito. Se le motivazioni saranno «tagliate», a rimetterci saremo tutti. La seconda battaglia, gli avvocati la daranno sulla questione della «responsabilità» che, tradotta, intende fare pagare anche i difensori della parte soccombente in caso di condanna per avere agito o resistito in processo «con mala fede o colpa grave». E’ la cosiddetta lite temeraria e forse bastava farla pagare al cliente (invece di lasciarla del tutto inapplicata).

Infine, due parole sulla difficoltà ad ottenere il testo: dopo infinite telefonate fra uffici stampa giustizia e presidenza del consiglio, viene fuori che, ieri alle 15,30, un testo dato per approvato il giorno precedente era ancora in «fase di piccole modifiche». Ma vi sembra serio?