Renato Mambor è stato uno dei protagonisti di quei formidabili anni Sessanta della sperimentazione italiana e – in particolare – romana, che ha avuto Piazza del Popolo come luogo d’incontro. Lì si trovavano a discutere e a proporre la loro rivoluzione creativa tantissimi poeti, intellettuali, registi e artisti quali Schifano, Angeli, Festa, Pascali, Tacchi, Lombardo, Fioroni, Ceroli, Ricciardi, ma anche Marotta, Rotella, Mauri, Patella, Baruchello, Boetti, Prini, Mattiacci, Uncini e Gruppo Uno, Baruchello, Bignardi, diversamente De Dominicis, Cintoli. Cesare Vivaldi, sulla rivista Il Verri, definì questoeffervescente fenomeno «giovane scuola di Roma», che scuola non fu mai, ma che pure si basava su scambi e rapporti di amicizia, di progetti, amori e visioni. Una predisposizione alla condivisione che ha accompagnato Mambor tutta la vita. «Non c’è niente e nessuno che sia veramente separato dal resto – diceva – la vita stessa si manifesta in relazione. Tra il pittore e il fare il quadro, tra il dipinto e lo spettatore… Questi fili nell’arte sono ciò che ci lega ai compagni di strada, alla storia contemporanea, al passato, alle diverse forme d’arte». Ma quale arte, per Mambor? Con i suoi sodali, propose un superamento dell’Informale post-bellico e del gesto materico per un’eliminazione «dell’io dal quadro» a favore di un «azzeramento linguistico», della «tabula rasa».

Classe 1936, Renato nasce a Roma e, nell’appartamento vicino a Cinecittà dove si trasferirà a un certo punto, verifica la pittura a volte insieme a un amico, da poco conosciuto: Mario Schifano. Con lui e con altri emergenti espone nell’ottobre del 1958 al Premio organizzato alla Sezione del Partito Comunista del quartiere. Le opere di questo nucleo di pionieri destano perplessità, tanto sono «moderne» per i palati abituati alle rappresentazioni di Guttuso e alla figurazione neorealista. L’adesione di artisti così attuali, tra i quali – oltre Mambor – Angeli, Festa, Schifano, Tacchi, Lo Savio e Lombardo, creano scalpore. Ma l’arte nuova è nell’aria e si imporrà ben presto.

Mambor fa anche esperienze cinematografiche. Ricorda Paola Pitagora, sua compagna di allora e amica di sempre: «(…) Occhio azzurro luciferino, alto, labbra sensuali, un viso che nel cinema poteva adattarsi al ruolo di cattivo (…)». Viene notato e lavora, tra gli altri, con Fellini per la Dolce Vita e sui set con Totò, Chet Baker e Pasolini. Il cinema fu anche un’iniziazione all’introspezione e all’uso del corpo che confluirà sia nelle Azioni in cui la Fotografia diventa medium di «raffreddamento» e rinnovamento creativo, sia nel successivo impegno nel Teatro e nell’esperienza Trousse con Patrizia Speciale che diverrà, poi, anche sua moglie.

A Roma, nel gennaio 1959, presso la galleria l’Appia Antica,ha la sua mostra importante, con Schifano e Tacchi; nel giugno 1960 vince al prestigioso «Concorso a premi di incoraggiamento» ad artisti voluta da Palma Bucarelli, attiva direttrice della Galleria d’arte moderna e da Maurizio Calvesi, storico e critico d’arte militante; nel 1965 ha la sua prima personale alla galleria Tartaruga di Plinio De Martiis. Da allora, tante esposizioni seguiranno, sino agli inviti alla Biennale di Venezia.
Mambor ha creato opere-trappola per la luce (i legni), Segnali stradali, Uomini statistici, Timbri che rimandano all’idea di informazione codificata e oggettiva e quindi garantendo il distacco emozionale dell’artista dalla sua opera; così sarà nel 1964-65 per i Ricalchi, serie rilevantissima dove è composta una specie di vocabolario per immagini, con un contorno netto, composizioni pittoriche piatte e in un’ottica concettuale che internazionalmente Kosuth strutturerà poco dopo. Mambor si concentra su un’arte che esibisce linguaggio e progetto artistico, analizzandolo nelle sue diverse fasi e componenti, com’è anche in Diario 67 e Diario degli Amici in cui accoglie il lavoro di amici artisti seguendo la poetica delle relazioni, per lui fondamentali. Queste sono chiare anche ne L’Evidenziatore, congegno che «si aggancia alla realtà», e che rientra nella sua tensione a quel superamento dei confini della pittura a cui si tendeva in quegli anni.

itorna alla pittura nel 1987, dopo l’esperienza teatrale dal 1975, una pausa per gravi scompensi cardiaci e l’accoglimento della pratica buddista. Nelle Funzioni (1987) e nei Processi di formazione (dal 1988-89) e poi nell’Osservatore, nel Riflettore, nei vari Uomo geografico, Testimone oculare, Viaggiatore, Pensatore, Decreatore, l’Agente, Tenente, Trasformatore e altre serie si vedono il segno e il colore – ordinati in forma di sagoma umana – farsi «strumenti per guardare il mondo, guida per un esercizio visivo». Sin dai suoi esordi, del resto, Mambor sente che attraverso il fare arte è possibile un processo di conoscenza che porti l’artista a diventare «elemento da relazionare e coniugare con l’altro, con l’esterno, con il mondo». Ci è riuscito benissimo. Lasciandoci una preziosa testimonianza d’arte, spirituale e di vita.

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