Mentre il mondo si indigna per i convogli umanitari e le cliniche bombardate in Siria, mentre l’Onu accusa il presidente Assad di stragi e massacri, poco più a sud è in corso da un anno e mezzo una carneficina di civili e il regolare bombardamento di scuole, ospedali, moschee, fabbriche, siti archeologici.

Eppure non ci si indigna perché la carneficina in questione è guidata da uno Stato considerato alleato occidentale e meritevole dell’omertà globale, l’Arabia Saudita. E perché è realizzata con il sostegno decisivo di chi le armi le vende, Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia in prima linea: Riyadh spende ogni anno 87,2 miliardi di dollari in armi, primo importatore di equipaggiamento militare al mondo con un +275% negli ultimi quattro anni.

A 18 mesi dal lancio dell’operazione “Tempesta decisiva” contro lo Yemen il bilancio è terrificante. In mancanza di inchieste internazionali sull’operato della coalizione sunnita a guida saudita impegnata contro il movimento ribelle Houthi, ci si affida alle denunce costanti seppur inascoltate delle organizzazioni internazionali. Che svelano una strategia ben precisa: in Yemen i siti civili non vengono colpiti per errore, ma sono parte della campagna militare. Disintegrare il paese per farlo tornare ad essere quel che era, il cortile di casa di Riyadh.

I numeri della guerra li dà l’organizzazione non governativa Yemen Data Project, associazione indipendente che dal marzo 2015 monitora il conflitto: un terzo degli attacchi sauditi ha avuto come target dei civili. Degli 8.557 raid compiuti in Yemen, 3.577 hanno colpito obiettivi militari e 3.158 siti civili. I restanti 1.822 non sono stati identificati. Tra gli altri sono stati centrati 114 mercati, 34 moschee, 147 scuole, 942 zone residenziali, 26 università e 378 mezzi di trasporto. I morti totali superano di gran lunga le 10mila vittime, oltre un terzo civili.

La risposta saudita è tanto laconica quanto imbarazzante: «Che interesse avremmo nell’uccidere i bambini yemeniti?», ha commentato ieri il ministro degli Esteri al-Jubeir, arrivando a negare certi raid definendoli impossibili per il tipo di equipaggiamento di cui gode Riyadh. La stessa Riyadh che spende buona parte del suo budget in armi, acquistandole dai migliori produttori sul mercato.

Ma non ci sono solo le vittime. A dare la misura della devastazione del paese è il bilancio degli sfollati: ieri l’organizzazione Oxfam ha pubblicato il suo ultimo rapporto che ha contato oltre tre milioni di Idp, Internally displaced people, ovvero civili costretti ad abbandonare le loro case seppur siano rimasti all’interno dello Yemen. Un quinto dei tre milioni non hanno più nemmeno una casa, distrutta dai bombardamenti, e due terzi hanno perso nel conflitto almeno un congiunto. L’80% della popolazione totale, 20 milioni di persone, non ha abbastanza cibo.

I numeri parlano da soli, tanto gravi da mettere in seria discussione il ruolo degli alleati più stretti: Amnesty pochi giorni fa ha denunciato l’utilizzo di bombe di fabbricazione Usa per colpire, il 15 agosto, l’ospedale di Medici Senza Frontiere nella provincia di Hajjah. Negli Stati Uniti una campagna bipartisan, democratica e repubblicana, ha presentato una mozione al Congresso che chiede di bloccare l’ultimo accordo di vendita a Riyadh, 1,15 miliardi di dollari in armi, mentre 60 parlamentari scrivevano direttamente alla Casa Bianca senza per ora ricevere risposta.

A Londra il clima è simile: due commissioni parlamentari (quella agli Affari e Innovazione e quella per lo Sviluppo Internazionale) hanno pubblicato insieme un rapporto nel quale si raccomanda la sospensione della vendita di armi a Riyadh a causa dei crimini commessi in Yemen. Ma a bloccare per ora il voto parlamentare è un fronte misto, laburisti e conservatori, che hanno presentato oltre 130 emendamenti, tra cui uno che elimina proprio lo stop all’export militare ai Saud.