Leggendo Borgo Vecchio di Giosuè Calaciura, il nuovo libro edito da Sellerio (pp.138 euro 14), se da una parte torna Conversazione in Sicilia di Vittorini – anche qui sembra che il tempo della speranza per gli uomini sia finito se mai ce ne fosse stato – dall’altra, però, l’affiorare nella parola di toni poetici ridà a quel quotidiano così emarginato, la forza sorprendente di un pastiche fiabesco e realistico che porta lontano. L’idea di male che prospera nel borgo, un microcosmo nella città di Palermo, con le sue categorie, appare come sfumata, quasi che tocchi al lettore ricostruire questa idea.

LA VISIONARIETÀ DELLA LINGUA di Calaciura non la scopriamo ora, già ai suoi inizi, con Malacarne, si intravedeva il teatro vivido e assoluto dei personaggi. La sua prosa come una scatola cinese descrive fatti, persone, che inesorabilmente si aprono e si proiettano su altri fatti, altre persone. L’asciuttezza dello stile scolpisce i personaggi, non lasciando spazio a possibili ambiguità psicologiche; essi sono quel che sono, figli di una terra che con le sue leggi terribili, si pone al di fuori della società. Persino il prete della chiesa sembra prendere strade ambigue rispetto ai dettami dell’istituzione ecclesiale; perché se si vuol vivere nel borgo, occorre arrangiarsi, venire a patti anche con la propria morale.

EPPURE I PERSONAGGI di Calaciura, così lacerati, a volte violenti, ubbidiscono a leggi che forse non avrebbero seguito se il destino non fosse stato così malevolo. Totò è un rapinatore con la pistola nella calza, figlio di ladro, cosa poteva aspettare per sé dalla vita?. Ed ecco la possibile redenzione: Totò incontra l’amore, la prostituta Carmela, se ne innamora e promette a sé stesso che tutto cambierà. Ma al momento del matrimonio il presunto amico, un giuda, lo tradisce dando le coordinate della sua posizione ai poliziotti che, dopo un inseguimento, lo uccidono. Carmela che voleva affrancare lei e la figlia Celeste dalla sua schiavitù non vede più uscita.

IN CALACIURA CERTAMENTE ci sono più riflessi narrativi, uno è quello del più limpido e visionario Garcia Marquez quando in un capitolo l’alluvione sommerge il paese e la pecora pasquale galleggia tra le vie e i bastimenti non vedendo più attracco, arrivano sulle colline passando tra le vie del paese. La violenza che scuote è però quella del bambino Cristofaro malmenato ogni giorno dal padre ubriaco senza che mai alcuna giustizia arrivi: «Nel quartiere dissero soltanto che il padre ebbe un sussulto e ritardò per un attimo il pugno quando vide Cristofaro oramai a terra nel suo stesso sangue…gli tendeva le braccia come da piccolo…».
Le pagine di Borgo Vecchio fanno intendere che quasi mai vi è giustizia al mondo. In Calaciura c’è anche un secondo riflesso, non nello stile ma nei contenuti: quello di Octavio Paz. Ha questa attenzione e declinazione accorta verso le periferie delle società, dei loro uomini e donne dissanguati dalla disperazione e proprio da lì, da quel vero centro, che Calaciura si mette in ascolto per intendere dove l’uomo sta andando. Ma forse nel tempo, del genere umano perduto, come avrebbe detto Vittorini in Conversazione appunto, una speranza individuale, almeno qui, è lasciata a chi se ne va.

CON LA SUA PROSA così realistica ma vivida di sbalzi lirici, l’autore torna a suo modo a farci toccare gli abissi dell’uomo, ma così facendo di sguincio, mette al centro la questione meridionale mai risolta, di un pezzo d’Italia dimenticata anche oltre la postmodernità.