C’è una pianta che, improvvisa come un paradosso fuori stagione, fiorisce a febbraio tra le pietre antiche di Urbino, il ranuncolo giallo denominato favagello: è la griffe elettiva di un poeta tra i nostri maggiori, Umberto Piersanti, nato a Urbino ottanta anni fa proprio di questi giorni e a bordo di una lettiga, come ha molte volte raccontato, che scivolava sulla neve ghiacciata giù per la discesa di via Raffaello.

SE I NOMI DELLE PIANTE, per eredità pascoliana, sono il primo suo segnacolo, va appunto ricordato che la poesia di Piersanti nasce a propria volta sul principio degli anni Sessanta quale espressione lirica e vocazione al canto giusto nel momento di massima indigenza, hic et nunc, di ogni trattamento armonico/melodico per la sopravvenuta irruzione del Gruppo 63. Si potrebbe anzi dire, al riguardo, che con lui soltanto Dario Bellezza fra i coetanei abbia mantenuto un profilo di perfetta alterità rispetto al gusto allora dominante del sabotaggio linguistico-stilistico che talora sconfinava in posizioni di rigetto e di abiura della poesia stessa.

Esordiente con una plaquette dal titolo già intonato, La breve stagione (1967), e in capo a un decennio doppiata da un’altra addirittura topica, Il tempo differente (1974), Piersanti ha firmato complessivamente una decina di raccolte fino alla recente Nel folto dei sentieri (marcos y marcos 2015) e a quella che festeggia ora il più rotondo dei suoi compleanni, Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo, «i Venti», pp. 159, euro 19), un libro, va subito detto, scritto nei modi che Adorno definiva dello «stile tardo», cioè uno stile capace di asciugare in via definitiva la maniera di un autore attingendo la assoluta essenzialità.

Perciò Campi d’ostinato amore, scandito in sei sezioni di testi databili all’ultimo quinquennio, prima che come una raccolta si configura come una ideale antologia sia pure composta di inediti, perché dentro, pari a un ultimo catalizzatore, c’è tutto quanto l’universo percettivo di Piersanti, il suo mondo tridimensionale e reale, ma parallelamente c’è il riflesso mitico o ideale di quel mondo medesimo, un teatro d’ombre che il tempo ha reso sempre più care e necessarie. Sono versi brevi, frontali, spezzati e di continuo ricomposti entro la misura di un sostanziale endecasillabo, essi non mutano mai eppure sono sempre differenti.

ECCO AD APERTURA di pagina: «e il mio ginocchio che si piega/ e cede/ a quei campi amati/ d’un amore ostinato,/ sbarra l’entrata// aspetto i favagelli/ del febbraio,/ tiepidi contro il gelo/ sbucare fuori». Fedele a un codice espressivo che culmina nel plurilinguismo pascoliano (Piersanti è un poeta di «natura» nel senso che legge anche la storia come Natura naturata), egli non ha timore di riferirsi alla parola soda di un Carducci o, più avanti, agli idilli campestri di Luigi Bartolini e alle prime prove di Volponi, poesie dal netto spessore, così come non ha mai nascosto il debito con colui che fu il più morbido e fragrante tra i nostri classici, il Tasso dell’Aminta che il poeta urbinate ha sempre ricordato come una folgorazione della adolescenza, uno spazio dove si incontra la memoria favolosa di ninfe e pastori, di selve e di acque lustrali, dunque non un accademico idillio ma il fisico incarnarsi di una utopia, di un sentimento ideale del rapporto tra gli esseri umani.

Un’immagine tratta dal cine-poema “Sulle Cesane” del 1982

NÉ VA QUI DIMENTICATO l’apporto di autori che il vigente snobismo sospetta di retorica e di acustica eccessiva, ad esempio Garcìa Lorca e Neruda, di cui Piersanti ha sempre accolto l’humanitas, la parola diretta e transitiva. Insomma ha letto, come si dice, tutti i libri senza pagare pedaggio e rimanendo indenne dalle mode. Semmai per lui è vero ciò che il suo maggiore studioso, Roberto Galaverni, ha ricordato citando a proposito di anacronismo un rilievo di Cesare Garboli: «Ci sono poeti di tale forza innovatrice da cambiare quasi di colpo i codici costituiti; e ci sono poeti inamovibili dall’antichità, così fedeli alla tradizione da scenderne giù come le pecore dai tratturi».

E dai tratturi del suo Montefeltro, dagli stradini di ghiaia e dai fossi delle Cesane, l’altopiano che davvero lo ha visto crescere e ardere di inconsapevolezza, il poeta continua a discendere mantenendo fedeltà a un proprio universo etimologicamente perfetto, cioè già compiuto, di segni acustici e cromatici, gli stessi della amata pittura tra i calanchi geometrici del grande Piero, i rosa persino ineffabili di Federico Barocci (nel bambinello con le ciliegie della Fuga in Egitto a Piobbico), o le terre bruciate e i cieli di cobalto della Sacra conversazione, a Cagli, di Giovanni Santi. Ancora si legge nell’incipit di Campi d’ostinato amore: «/ il passato è una terra remota/ magari non esiste/ non sai dove»; oppure: «con gli occhi/ e con le mani/ ti cerco il volto,/ la memoria pervade/ la mia giornata». Sembrerebbero due espressioni divergenti e tuttavia sono complementari. Quale ne sia infatti la poetica si intuisce dai titoli della sequenza che lo ha rivelato a cavallo degli anni Novanta, I luoghi persi (’94), Nel tempo che precede (’02) e L’albero delle nebbie, una trilogia edita da Einaudi.

Piersanti è il testimone di luoghi che definisce «persi», laterali o emarginati, e di un tempo che chiama «differente» e perciò asincrono rispetto al suo decorso lineare. Non per caso egli si è rivisto mille volte bambino nella casa avita, sotto le Cesane, tra Che’ Gino e Che’ Spasso, con i suoi nonni eredi di un mondo sapienziale e magico, Madìo, con le storie di folletti e i diavoli detti sprovingli e la nonna Fenìsa, una autentica «voce» che sembra uscire dal magnetofono di Ernesto De Martino. Il poeta ne è portavoce, si immagina da sempre un poeta/pastore, ma il suo sguardo non è mai nostalgico alla maniera per esempio di Pasolini o di Ermanno Olmi: sua è, al contrario, quella che in tedesco si dice Sehnsucht, un sentimento più sottile e intrigante della nostalgia dove si mescolano anche desiderio e struggimento.

La nostalgia implicherebbe lo spasimo perché qualcosa che si sa perduto ritorni al presente ma il fatto è che per il poeta quello spazio/tempo non si è mai perduto e, al contrario, si accampa al presente nella esperienza della totale alterità: sono le piante e i fiori dove si annuncia l’antico hortus conclusus, i corpi femminili dove ancora torna il profilo delle ninfe favolose, le pietre di città che la fatica di schiavi e di anonimi operai seppe edificare, eventi rivissuti con uno spirito che Carlo Bo ebbe a definire insieme «di libertà e passione».

È QUESTO IL MONDO sempre reversibile nello spazio e nel tempo, fra qui e altrove, tra passato e presente, che Piersanti ha dispiegato anche nelle sue notevoli partiture in prosa, racconti o ballate epiche prima che romanzi in senso proprio, pure se la traccia autobiografica sempre vi persiste, da L’uomo delle Cesane (1994) a L’estate dell’altro millennio (2001), da Olimpo (2006) a Cupo tempo gentile (2012), né va qui dimenticata la sua produzione di cineasta, il film di tenerissima elegia L’età breve (1969), ed alcuni cine-poemi molto amati da Amelia Rosselli fra cui lo stupendo Sulle Cesane (1982) che è il palinsesto di quanto sarà I luoghi persi.

Nel libro-intervista Il canto magnanimo (a cura di Roberto Galaverni e di chi scrive, PeQuod, 2005) il poeta ha dichiarato, quasi arrendendosi all’evidenza di un mondo che può essere soltanto suo: «… ma io da bambino vedevo solo gli elementi fantastici, quella era la realtà che m’appariva e più m’affascinava. Ho vissuto in un mondo che per certi aspetti è più vicino al Milleduecento che a quello di un giovane d’oggi. I carri erano come quelli del Medioevo. Il mio primo viaggio è stato in una treggia, che è un carro tirato da buoi e che al posto delle ruote ha dei pali, a mo’ di slitta, che servono per salire sopra i greppi… di macchine ne scendeva per le Cesane una ogni due o tre giorni. I calessi coi cavalli erano invece fitti. Ho percepito un mondo arcaico e questo mi è entrato nel sangue». E anche oggi ogni volta che pensa a sé stesso e alle persone che ama (la sua Annie, il figlio Jacopo) gli viene da donare il fiore che è più suo, come nella poesia Febbraio 1941 che comincia fatalmente con «forse nevicava quel giorno/come adesso,/ stroncava i gialli,/ impazienti favagelli».

Saggi, riviste e il centro Leopardi

Umberto Piersanti è nato a Urbino nel 1941 e ha insegnato Sociologia della Letteratura nella Università della sua città. Oltre alle opere poetiche, ha pubblicato romanzi, saggi di critica letteraria e ha girato alcuni film-poemi. Suoi testi sono usciti in riviste italiane e internazionali (fra cui «Paragone», «Nuovi Argomenti», «il Verri», «Poesia», «Poetry»). Nel 1989 è uscita in Spagna la sua antologia poetica «El tiempo diferente» e nel 2002, negli Stati Uniti, «Selected Poems 1967-2004». Presiede il Centro mondiale della poesia «Giacomo Leopardi» di Recanati. Nel 2005 è stato candidato al Premio Nobel per la letteratura.