La Mostra è finita, nell’attesa dei Leoni sul Lido sono comparsi ieri i gazebo elettorali, la Lega che qui è soprattutto quella di Zaia, Forza Italia un po’ sommessi, quella del sindaco Brugnaro tutto rosa anche le mascherine dei ragazze e ragazzi che intercettano i passanti di un sabato estivo.
Nel buio delle sale cosa ci hanno raccontato invece le immagini e le storie di questi giorni? Quale è sentimento comune che attraversa gli immaginari del pianeta? Un paesaggio di scontri, conflitti, contraddizioni – e prima di questo lockdown che ne ha messo in evidenza ancora di più le disparità – che le opere più riuscite provano a restituire in narrazioni non dirette, nella trama dei dettagli meno evidenti.

PADRI E FIGLI. È uno dei motivi più presenti da Nuevo Orden di Michel Franco a Padrenostro di Claudio Noce. E poi, pure se in modo più suggerito in Miss Marx di Susanna Nicchiarelli, Assandira di Salvatore Mereu o Love After Love di Ann Hui, Nowhere Special di Uberto Pasolini – per citare solo qualche titolo. Da questa relazione si muove anche il film (in concorso) di Chaitanya Tamhane The Disciple, il cui giovane protagonista ha scelto di studiare la musica classica indiana per seguire la lezione paterna appassionato studioso di questa tradizione millenaria e musicista (poco brillante) a sua volta. Anche il figlio non riesce a trovare il giusto accordo nonostante gli sforzi, le ore passate a esercitarsi, il maestro di cui si prende cura, e le lezioni ascoltate su vecchi nastri di una misteriosa guru – ispirazione già di suo padre – che nessuno ha mai sentito suonare e che chiede trascendenza e dedizione assoluta perché l’epifania di quei suoni è quasi impossibile da raggiungere. Alla relazione tra padre e figlio Tamhane intreccia il legame di arte e vita, come l’una si nutre o è influenzata dall’altra, se si può essere artisti senza un vissuto – il ragazzo non ha amici non vive una sessualità se non solipsista. Può l’ostinazione colmare la mancanza di talento? Intorno al protagonista c’è un mondo lontanissimo da quella voce senza volto e senza musica a cui ha affidato la sua bussola, la Mumbai moderna di talent e ragazzine che conquistano l’audience con entusiasmo e vitalità. La musica si fa riflesso del presente – del resto il regista non si preoccupa mai troppo del come filmarla – delle contraddizioni di una realtà complessa e della cesura (universale) tra desideri e casualità del quotidiano.

TEMPI PRESENTI Il nostro tempo e la sua realtà sono la materia condivisa dal cinema in Mostra ma la scommessa è sulla loro rappresentazione: cosa significa «cinema politico» oggi a fronte delle molte nuove «regole» messe a governare l’immaginario e alla moltiplicazione di immagini il cui confine di «verità» si fa sempre più tenue? Che determinano l’attesa di chi guarda – «gli spettatori» di cui parlano Welles e Hopper – di ritrovare elementi familiari nell’immagine della guerra, dell’oppressione, della marginalità. Ma politico è il come si racconta (la forma?) non semplicemente il soggetto, che si accontenta di sé dicendo: «Hey sto parlando di un tema importante!».

Lav Diaz fa un cinema decisamente politico. Nel suo «teatro» dell’umano in bianco e nero che sia il barrio o la giungla delle sue Filippine, dove deambulano dei personaggi che incarnano le storie e i loro archetipi, si parla di quel Paese e delle sue violenze, della storia dei colonialismi e dei loro post, lì e in qualsiasi altro luogo che condivida domini culturali, economici, sociali. E di un universale umano che oppone alla sua visione di superiorità nell’ecosistema del pianeta. Sono pochissimi gli umani con un cervello che ha raggiunto un suo pieno sviluppo, Gandhi, Cristo, Maria Teresa, Buddha – dice la voce di un medico sul vagabondaggio dei personaggi. Sono coloro che hanno messo da parte violenza, avidità, sopraffazione, gli altri rimangono vicini ai gorilla. Dunque risponde una voce femminile i fascisti, i dittatori sono gorilla? La realtà delle storie, la loro verosimiglianza col presente, si fa così subito astrazione: un universale umano.

Protagonista del racconto è un ragazzo che cerca di fuggire dal villaggio e dalla miseria della sua esistenza, pieno di rabbia e di vendetta – il fratello è stato ucciso, la sorella è malata, la madre sta perdendo la voce – insieme a altri due, vanno a lavorare in miniera per guadagnare qualcosa in più. Uno, il più anziano per portarli con sé ha chiesto soldi, una nuova ferita per il ragazzo che dopo la morte del suo lo considerava un po’ un secondo padre. E con l’altro, devoto cattolico, erano amici sin da bambini. Ma ci sono segreti che non conosce e l’amicizia ha un buco nero. L’isola su cui vivono è imprigionata in leggende, superstizioni minacciose, un cavallo nero che se appare porta con sé la morte violenta. Come gli echi che scendono dalla montagna dove i padroni dell’isola con cognome spagnolo come i vecchi coloni hanno massacrato gli indigeni. Cosa ha insegnato l’esperienza, qualche solidarietà di classe o progetto di ribellione?

Genus Pan con cui Diaz torna al Lido (in Orizzonti) dopo il Leone d’oro «scandaloso» a The Woman Who Left, appare come un racconto morale, in cui le suggestioni quasi da fantascienza delle voci che osservano gli uomini e il loro movimento rimandano alle sperimentazioni dei film più recenti. Diaz pone delle questioni, non giudica ma neppure solleva dalle responsabilità, le figure che abitano questo paesaggio fuori dal tempo – in altre epoche quasi un bosco di divinità – sono gli umani e le loro azioni. Il suo bosco è perciò un contrappunto al mito – una sorta di mondo animale con al centro l’uomo e il suo agire senza superiorità. Nelle note al film Diaz dice che c’è speranza – e tra i cervelli pienamente sviluppati include anche l’agricoltore che provvede ai suoi bisogni vegetariani. Eppure nonostante un certo umorismo (tragico) qui più che in altre sue opere sembra invece non concedere aperture. È questione di responsabilità non di buoni e cattivi. Il gesto del suo cinema ne assume a ogni nuovo passaggio.