Fardin, 25 anni, ha lasciato la più grande città del Kurdistan iraniano, Kermanshah, per raggiungere Kirkuk in Iraq. Ma da qualche settimana vive nel terrore. «Qui è in corso uno scontro settario», ci spiega il giovane, raggiunto al telefono. Nonostante i raid degli Stati uniti contro lo Stato islamico (Isis) e la battaglia per la diga di Mosul, i kurdi di Kirkuk non temono per la loro incolumità e si sono organizzati in comitati popolari di auto-difesa. «Lavoriamo in condizioni di estremo pericolo. E ogni giorno vedo intorno a me famiglie piangere per i loro cari», aggiunge Fardin. Il giovane kurdo iraniano ha oltrepassato in minibus e poi in taxi il confine tra Iran e Iraq per lavorare nella compagnia pubblica per l’energia elettrica. «Con lo scoppio del conflitto, ho perso il mio lavoro e ora sono impiegato in una compagnia iraniana che fa parte di un consorzio controllato da turchi, il mio salario è di 20 dollari», ammette il giovane che per ragioni di sicurezza si è trasferito nel villaggio di Bazeyan, tra Sulaymania e Kirkuk. Grazie all’impegno di suo padre nella guerra Iran-Iraq (1981-1988), Fardin ha svolto solo un anno di servizio militare anziché due. «Ho goduto di un’esenzione prevista per i figli dei veterani di guerra, ma in ogni caso non avrei voluto proseguire nell’esercito regolare iraniano, le paghe sono misere», ha aggiunto il giovane.

Il sostegno iraniano ai kurdi iracheni

Non solo i raid Usa e armi occidentali, anche le autorità iraniane, così come il Partito dei lavoratori kurdi (Pkk), stanno dando una mano ai kurdi iracheni. La questione della difesa della minoranza kurda, che fino a pochi mesi fa era off-limits in Iran, è però ancora molto controversa. Tant’è vero che le manifestazioni nelle città kurde iraniane degli ultimi giorni inneggiavano principalmente alle milizie sciite e a Muqtada al-Sadr più che ai peshmerga. «Stiamo fornendo aiuto politico ma non abbiamo ancora inviato armi», aveva detto il viceministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian. E il capo della diplomazia iraniana, Javad Zarif è andato oltre e ha chiesto maggiori concessioni sulla fine delle sanzioni per il nucleare iraniano, prima di appoggiare militarmente i combattenti kurdi. Eppure, secondo i peshmerga, l’Iran ha già inviato un’intera divisione in Iraq, carri armati ed elicotteri militari.

Martedì, il ministro dell’Interno, Abdolreza Rahmani Fazli aveva assicurato che l’avanzata dell’Isis verso Najaf e Kerbala sarebbe stata una «linea rossa» per le autorità iraniane. E così anche le brigate iraniane al-Quds, di stanza in Iraq, stanno facendo i conti con la fine del governo di Nuri al-Maliki e la nomina del nuovo premier Haider al-Abadi a Baghdad. Secondo il quotidiano in arabo Sharq al-Awsat, il capo delle brigate di élite, Qassem Suleimani, sarà sostituito dal suo vice Hossein Hamadani. Dietro l’avvicendamento ci sarebbe proprio la mancata rielezione a premier di al-Maliki, scaricato anche dall’Iran dopo lo scoppio della crisi. Suleimani è stato uno dei principali sostenitori dell’ex premier iracheno. Tuttavia, già dall’inizio della crisi, quando al-Maliki sembrava avere le ore contate, Hamadani è stato spesso inviato in Iraq e a Najaf.

Questo non significa però che l’Iran sia intenzionato ad armare i peshmerga. Quando si parla di kurdi iraniani si gioca col fuoco. Il dispiegamento dei pasdaran lungo il confine tra Iran e Iraq è ormai permanente e a Kermanshah la presenza dei militari è massiccia. Ma qui, la militarizzazione, voluta dall’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, non è mai finita.

I kurdi di Kermanshah

I kurdi iraniani sono stati tra i protagonisti della Rivoluzione del 1979. Khomeini ha presto messo fuori legge il Partito democratico del Kurdistan iraniano (Kdp-I, sostenuto dall’Internazionale socialista, mentre i due leader del movimento Qasemlu e Sharafkandi sono stati uccisi). Migliaia di kurdi vennero uccisi dopo processi sommari e con l’accusa di essere dei dissidenti.

E così, dopo 35 anni, a Kermanshah resta poco dell’antica identità kurda. I suoi abitanti sono imbevuti ormai di nazionalismo persiano. Questo è facilitato anche dai magnifici siti di epoca sasanide di Bisetoun e Taghboustan che circondano la città. Non solo, in centro, tra vicoli strettissimi e case di fango, spiccano le abitazioni di epoca Qajar, Takieh Biglar Baigi e Moaven, insieme all’immenso e antico bazar. Del passato kurdo resta la lingua, che si continua a parlare nonostante in scuole e edifici pubblici si possa usare solo il farsi. E la musica: sono kurde le danze dei matrimoni e le canzoni che si ascoltano per strada, dai cantanti Nasser Razazi (che ora vive in Svezia) a Hassan Zikak, da Adnan Pavei a Leyla Farighi.

A Sanandaj, Ocalan è ancora un eroe

Se a Kermanshah chi sostiente l’indipendentismo kurdo è considerato spesso un terrorista, a Sanandaj il clima è ben diverso. Poster di Che Guevara sono affiancati all’immagine dello scrittore comunista Ahmad Shamlou. Non solo, sono molti i giornali locali in kurdo pubblicati a Sanadaj da Sirwan a Abidar, da Kushk al magazine letterario Serva. «Da pochi anni insegnamo lingua e letteratura kurda all’Università del Kurdistan», ci spiega Nasser Rashwan. Il docente di economia non nasconde le sue simpatie per Abdullah Ocalan (leader del Partito dei lavoratori kurdi Pkk) e Massoud Barzani (presidente del Kurdistan iracheno). Nonostante i kurdi iraniani siano considerati lontani dai movimenti kurdi turco, siriano e iracheno, i leader kurdi godono di grande popolarità per le strade di Sanandaj. Ma i loro nomi vengono sussurrati sotto voce.

Keivan, giovane sostenitore del Kdp-I non guarda all’Iraq. «I tecnocrati al potere in Iran sono una casta corrotta e lo stesso posso dire di Barzani. Per questo l’unico leader kurdo di riferimento è per me Ocalan», aggiunge il ragazzo. Concorda con lui Arman che ha combattuto al fianco del «partito», come lo chiama, prima di dedicarsi allo studio dell’architettura. Qui sono numerosissimi i sostenitori del movimento kurdo turco. Nabid ci racconta che fino a pochi anni fa combatteva nelle montagne di Abidan con il Partito per il Kurdistan libero (Pjak). «Ho poi abbandonato l’attivismo politico per cercare un lavoro», ammette amareggiato. Secondo il giovane l’opposizione kurda al regime iraniano è duplice, anti-religiosa, per questo la maggior parte di questi movimenti ha aspirazioni socialiste, ma negli ultimi anni anche anti-sciita, cioè in contrasto con l’ideologia khomeinista imposta dopo la rivoluzione. Nel minuscolo ristorante Parvis Pur, si arrostiscono interiora e fegato, qui tutti sono per il Kurdistan, ma alla parola Pjak molti si intimoriscono. Abdallah, un anziano avventore al nostro fianco, ama Ocalan, mentre il giovane musicista metallaro che lo accompagna non concorda: «È il leader di un altro paese», assicura.

Dopo lo scoppio della guerra in Iraq (2003), numerosi sono stati gli attacchi dei pasdaran ad organizzazioni paramilitari kurde. Pezhak, un gruppo separatista kurdo, si è costantemente scontrato con le forze di polizia iraniane nella provincia di Urumieh. Simili scontri sono frequenti tra soldati iraniani e ribelli kurdi del gruppo Kongra-Gel. Mentre l’autonomia dei kurdi iracheni è sempre più vicina, si sono intensificate le loro relazioni con i kurdi iraniani. E resta incerta la sorte dei kurdi siriani che dopo lo scoppio della crisi a Damasco godono di ampia autonomia. Se la lettera di Ocalan del marzo 2013 ha aperto il dialogo dei kurdi turchi con il governo di Ankara, a Sanandaj sembra ancora tutto da fare per il riconoscimento dei diritti di una minoranza che sta dimenticando le sue radici.