«La facciamo dentro l’intervista?». «Il maestro preferirebbe fuori, si sta più freschi». «Va bene, prendiamo un tavolino, due sedie e un altro bicchiere di vino e mettiamoci qui». Il qui sta per piazza S.Calisto a Trastevere, di fronte all’omonimo bar. Il «maestro» è il leggendario Paul Schrader, critico cinematografico, sceneggiatore (Taxi Driver, Toro Scatenato, Mosquito Coast solo per citarne alcuni) e regista (American Gigolò, Mishima e First Reformed tra gli altri). Una situazione surreale amplificata dall’inaspettata interruzione di Paolo Sorrentino, arrivato per salutare l’artista americano, che poco dopo avrebbe presentato il suo ultimo film (First Reformed 2017) a Piazza S.Cosimato, nell’ambito del Festival «Il cinema in piazza» organizzato dai ragazzi del Cinema America.
Nonostante il caos estivo dei sabato sera trasteverini, riusciamo a immergerci per alcuni minuti nelle profondità della settima arte.
Lei è cresciuto in una famiglia fortemente religiosa e non ti era permesso guardare la televisione o i film. Quando è iniziata la sua relazione con il cinema?
Sì da bambino non vedevo film e non conoscevo nessuno che lo facesse. A circa 15 anni vidi un film di Walt Disney e ne rimasi molto deluso ma poi durante il college arrivò il cinema europeo degli anni ’60: Bergman, Antonioni, Truffaut…all’improvviso mi si aprì il mondo e arrivò la mia liberazione.
Cosa l’ ha fatta innamorare di quest’arte?
Adoravo la critica, inizialmente non volevo fare cinema ma solo il critico cinematografico perché credevo fosse una cosa superiore. Ad un certo punto della mia vita la saggistica non era più sufficiente e ho iniziato a raccontare storie.
Aveva solo 24 anni quando ha pubblicato «The Transcendental Style in Film». Cos’è la trascendenza nel cinema?
Ho compreso che c’era una connessione tra la vita spirituale nella quale ero cresciuto e i film che mi piacevano; non era una connessione di contenuti ma piuttosto di stili. Diversi artisti nel mondo stavano usando gli stessi dispositivi stilistici per cercare di avvicinarsi alla spiritualità. Non si trattava di considerare cosa stessero facendo ma in che modo lo stavano facendo, è questo ciò di cui parla il libro. È tutto nel metodo.
C’è trascendenza in «Taxi Driver»?
No.
Come è nata l’idea della sceneggiatura di «Taxi Driver»?
All’epoca avevo 25 anni, ero un critico cinematografico ma ero in un periodo molto buio della mia vita, vivevo nella mia macchina, a volte dormivo nei cinema porno, non parlavo più con nessuno. Bevevo, bevevo, bevevo. Avevo un forte dolore allo stomaco così andai in ospedale e mi dissero che avevo un’ulcera sanguinante. All’improvviso, mentre ero in ospedale, ebbi una visione: un taxi giallo e un giovane uomo intrappolato lì dentro, una sorta di bara che vagava, galleggiando, per tutte le fogne della città. Una metafora della solitudine, un ragazzo circondato da tanta gente eppure intrappolato in questa scatola di metallo. Sapevo che dovevo scrivere di questo ragazzo perché stavo rischiando di diventare come lui; per evitarlo avrei dovuto trasformarlo in un’opera di finzione. Travis Bickle era la persona che avevo paura di diventare, lo conoscevo molto bene. Quindi esordii nel cinema scrivendo quella che per me fu una sorta di terapia, non avevo intenzione di vendere una sceneggiatura e diventare famoso, per questo dopo averla terminata non la feci leggere a nessuno. Lasciai Los Angeles e andai in giro per 6 mesi, dopodiché capii che la terapia aveva funzionato.
Com’è stato il rapporto con Scorsese sul set?
Martin e io siamo ancora amici, ci frequentiamo. Trascorsi a New York le 4 settimane prima di iniziare le riprese di Taxi Driver, una volta iniziate le riprese tornai a Los Angeles perché avevo un altro progetto. Penso che se il regista e l’attore si sentono al sicuro, allora lo sceneggiatore ha fatto il suo lavoro ed è ora che se ne vada perché non gli rimane altro da fare quando iniziano a girare un film.
Dopo l’ultimo film (L’ultima tentazione di Cristo del 1987 ndr) che facemmo insieme, ho capito che non potevamo più lavorare insieme perché non possono esserci due registi nella stessa stanza e Martin non voleva un secondo regista (ride).
Il giorno precedente, durante la presentazione di Taxi Driver al Parco della Cervelletta, seconda location del festival, Schrader ha raccontato ulteriori aneddoti sul film: «Sono stato molto fortunato ad avere Scorsese come regista, so che non avrei potuto dirigere io il film. Martin era lì al momento giusto, come lo era De Niro. Non abbiamo nemmeno dovuto parlare troppo del personaggio, lo conoscevamo in ogni aspetto, in qualche modo tutti e tre eravamo entrati in contatto con lui; aveva fatto parte della nostra formazione. Un giorno, durante le riprese, De Niro mi chiamò per chiedermi se Travis poteva dire una certa battuta. Io gli risposi: tu sei lì con i miei stivali e la mia giacca – anche perché gli avevo lasciato davvero i miei vestiti – sei tu che guidi il taxi e se pensi che Travis lo dice senz’altro sarà così, non ho alcun dubbio. Adesso a distanza di 50 anni questo film ancora funziona e ogni generazione lo fa suo. Mi piacciono i finali aperti. Anni dopo l’uscita di Taxi Driver, alcuni critici hanno detto che il finale probabilmente era un’allucinazione del protagonista. Ho chiesto a Scorsese se poi aveva deciso di girarlo in quel modo, visto che non l’avevamo previsto, e lui mi ha risposto che era contento che fosse andata così e che un’opera d’arte intelligente si presta a diverse interpretazioni.
La critica cinematografica e la regia sono compatibili?
No, sono molto diverse e devo assicurarmi che un aspetto non interferisca con l’altro. Sono modi diversi di pensare. Un critico cinematografico vuole mettere il corpo sul tavolo e aprirlo, scoprire come e perché è vissuto. Un regista è come una donna incinta, tutto quello che vuole è dare la vita. Quindi, se lasci il becchino (il critico ndr) nella sala parto, questo ucciderà il bambino.
Sta lavorando a nuovi progetti?
Sì, a un paio di cose. Ho perso un attore per un film e quindi sto riorganizzando i casting; sto scrivendo anche una nuova sceneggiatura.
Franco Zeffirelli non c’è più, prima lo ha riconosciuto in una foto affissa nel bar… Cosa pensa del suo senso di spiritualità?
È molto diverso dal mio. Lui è una sorta di artista cattolico rococò, io sono ancora un protestante, per questo non ci sono molte connessioni. Non ho mai provato un senso di spiritualità nei suoi film, ho sentito una specie di emozione religiosa ma non è ciò che intendo per spiritualità (ride).

Mentre Schrader passeggia tra i vicoli di Trastevere, S.Cosimato è già gremita di gente, in attesa che il proiettore si accenda. I ragazzi che hanno organizzato il festival mostrano all’artista americano l’esterno abbandonato di quello storico Cinema America, da dove tutta questa storia ebbe inizio quasi sette anni fa. Dopo la presentazione del film rimango ad osservare il maestro che conversa, in penombra, quasi sdraiato sui gradini della piazza, con un uomo dall’aspetto poco convenzionale. Non è bastata la vile aggressione ai ragazzi del Cinema America – avvenuta la stessa sera un paio d’ore più tardi – per far svanire tutta quella umanità.