Il padre di Leonard Bernstein, Samuel, teneva sulla scrivania del suo ufficio, a Boston, una copia assai consumata del Talmud. Gestiva il suo piccolo commercio di prodotti per parrucchieri nell’America della Grande depressione circa alla stessa maniera con cui avrebbe trattato la vendita di qualche cianfrusaglia a Rivne, la shtot da cui se n’era andato agli inizi del Novecento per sfuggire alla povertà e ai pogrom. Discuteva con i clienti per ore, commentando con il Talmud alla mano questo o quel passo della Bibbia: era un rabbino mancato, e trasmise ai suoi figli, soprattutto al geniale primogenito, un amore illimitato per i libri e il sapere.

La straripante energia comunicativa del grande musicista nasceva anch’essa da un cuore rabbinico, che gli dettava il bisogno impellente di raccontare, spiegare, restituire ogni granello di conoscenza appresa quando era il meraviglioso allievo di cui parlarono tutti i suoi insegnanti, dai docenti di letteratura inglese del liceo fino a due giganti della direzione d’orchestra come Serge Koussevitzky e Fritz Reiner, letteralmente sedotti dalla sete di sapere e dall’entusiasmo di apprendere del giovane Bernstein, cresciuto nell’ideale di sapienza di Salomone: «Questa ho amato e ricercato fin dalla mia giovinezza, ho cercato di prendermela come sposa, mi sono innamorato della sua bellezza».

Dopo l’assassinio di Kennedy
L’ebraismo illuminista di Bernstein, che nemmeno il genocidio dei suoi fratelli europei era riuscito a soffocare nel pessimismo e nella disperazione, venne messo a dura prova – invece – dall’assassinio di Kennedy prima, e dalla famigerata politica americana in Vietnam poi. Dopo l’attentato di Dallas, infatti, la sua produzione musicale entrò in una fase involutiva e contraddittoria, la cui manifestazione più rilevante è il paradossale progetto di Mass, scritta nel 1971 per l’inaugurazione del Kennedy Center for Performing Arts di Washington. Altrettanto sofferto e irrisolto, sul piano personale, è il suo ultimo lavoro teatrale, A Quiet Place, la cui versione definitiva, che ingloba l’opera giovanile Trouble in Tahiti, fu allestita al Teatro alla Scala nel 1984, un tragicomico tentativo di risolvere in forma autoanalitica i conflitti trascinati per tutta la vita con la figura paterna, scomparsa ormai da oltre dieci anni.

L’ultimo Bernstein, bersaglio dalle ironie di Tom Wolfe per i suoi party nel superattico a Manhattan, organizzati allo scopo di raccogliere i fondi da destinare alle Black Panthers, era in realtà un uomo sprofondato nel più cupo pessimismo esistenziale, impotente di fronte al crollo di tutto quanto aveva contribuito alla sua visione del mondo e dell’ebraismo. L’ultimo bagliore di quell’angelo del sapere e della ragione che Lenny ha disperatamente desiderato incarnare si sprigionò a Berlino la sera di Natale del 1989, pochi mesi prima della morte, quando ai piedi delle rovine del Muro diresse una memorabile esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven, gridando al cielo per l’ultima volta il suo atto di fede nella fratellanza umana e nella gioia della musica.

Per trovare un altro musicista così intimamente legato alla parola bisogna risalire forse fino a Schumann: Bernstein era un maestro nell’arte di affabulare, e tutta la sua musica, anche quella strumentale, nasce in fondo da un istinto teatrale, nell’accezione più antica di dramma, una storia raccontata e mimata in pubblico. Se non avesse dedicato tutto il suo tempo alla musica, Bernstein sarebbe diventato probabilmente un eccellente scrittore, come ci rivela un libro uscito finalmente anche in Italia in occasione del centenario della nascita, Scoperte, pubblicato dal Saggiatore a cura di Giovanni Gavazzeni (pp. 472, euro 32,00) e purtroppo offuscato da una traduzione sciatta, mai all’altezza della lingua di Bernstein.

Il titolo originale, Findings, proviene dal linguaggio della scienza, ma potrebbe riferirsi anche ai reperti di un’esplorazione o di uno scavo archeologico. Gli scritti vanno da un tema del 1935 della Boston Latin School al discorso di chiusura dell’anno accademico tenuto alla Johns Hopkins University nel 1980, passando per documenti eterogenei come articoli di quotidiano, discorsi d’occasione, lettere, recensioni, testi narrativi, tesi di laurea, poesie, sceneggiature televisive.

Si parla, naturalmente, molto di musica e di musicisti, ma il nocciolo di questo libro, a differenza degli altri suoi titoli a carattere divulgativo, The Joy of Music e The Infinite Variety of Music, è una sorta di esame di coscienza spirituale, che passa al setaccio i temi principali della vita di Lenny, dal rapporto col padre all’ebraismo, al debito artistico verso i propri maestri, primo tra tutti il «secondo padre» Koussevitzky, all’irredentismo culturale della musica americana.
Bernstein non riusciva a concepire la musica al di fuori della vita quotidiana, e dunque le sue riflessioni abbracciano questioni come il controverso sostegno dato al movimento sionista, il difficile dialogo con la contestazione giovanile e la generazione nata dopo Hiroshima, la fede nell’istruzione e nel progresso, la disillusione seguita all’assassinio di Kennedy e all’escalation della guerra in Vietnam. Il suo talento di scrittore è anch’esso documentato nel notevole racconto «Il soprannaturale», scritto a vent’anni per il corso di letteratura inglese a Harvard, in cui la sconvolgente relazione erotica e artistica con il grande direttore d’orchestra Dimitri Mitropoulos è adombrata sotto il velo, piuttosto trasparente per la verità, della finzione.

Per la prima integrale di Mahler
Quanto agli esempi di natura prettamente musicale, la Tesi di laurea a Harvard sull’assimilazione di elementi razziali nella musica americana e il testo che accompagnava nel 1967 la prima integrale discografica delle Sinfonie di Mahler, prima delle due registrate da Bernstein, testimoniano la sua chiarezza di pensiero e la brillantezza della scrittura. Magnifici, in particolare, i discorsi rivolti ai ragazzi, e in particolare quello tenuto agli studenti dei corsi musicali estivi di Tanglewood nel 1970, che verteva sul tema della speranza.
In quell’appassionata prolusione, Bernstein rivede con occhi pieni di angoscia il rapido declino di una generazione fiduciosa nel futuro e crudelmente sostituita da giovani delusi e incattiviti, privi di ideali e di una causa per cui militare. «Come ti aspetti che ci sentiamo quando siamo cresciuti guardando un eroe dopo l’altro assassinato davanti ai nostri occhi – i Kennedy, Malcolm X, Martin Luther King?» – riportava con sgomento, incapace di offrire risposte a domande che erano in realtà altrettanto sue quanto dei giovani con cui spendeva notti intere a discutere di politica e di filosofia. La palingenesi predicata dalle avanguardie musicali del dopoguerra si era rivelata alla fine una sterile utopia, e nessuna delle molteplici forme di «terza via» esplorate nel frattempo, compresa in fondo anche la sua, si era rivelata completamente soddisfacente. The Unanswered Question, infatti, è il titolo del libro che raccoglie il suo ciclo di Charles Eliot Norton Lectures del 1973 a Harvard, che sotto l’egida di un enigmatico e carismatico lavoro di Charles Ives cerca di mettere ordine nel caotico panorama estetico della musica del secondo Novecento.

Quanto a Scoperte, questo libro così carico di storia personale, pubblicato a distanza di oltre venticinque anni dall’edizione originale, avrebbe meritato qualcosa di più approfondito di una semplice postfazione, e note in grado di chiarire al lettore di oggi fatti, persone e circostanze conosciute solo a una ristretta cerchia. Sapere di Martha Gellhorn che fu, oltre a una grande giornalista di guerra e la terza moglie di Hemingway, anche una delle avventure più memorabili della turbolenta bohème di Bernstein avrebbe forse aiutato a capire, per esempio, il tono così brillante e amorevole della lettera mandata a questa donna formidabile, rimasta a lungo un solido punto di riferimento nella sua caotica vita sentimentale.

Legata a un’altra e diversissima figura di donna è la testimonianza più toccante dell’intero libro, la visita al capezzale di Nadia Boulanger, l’insegnante per antonomasia e la levatrice della musica americana del Novecento: nella tenerezza con cui Bernstein riporta l’immagine e le ultime parole di questa severa vestale dell’arte musicale, «une musique… ni commencement ni fin…», si legge la devozione per qualcosa di più alto e universale del rispetto dovuto a un’amata maestra: si legge il suo precoce consacrarsi al mondo della saggezza e della ragione incarnato dalla musica, in tutta l’infinita varietà delle sue forme.