Dall’università a via degli Orti d’Alibert sette minuti con la Ford Anglia, ma forse ricordiamo male. Nel giro di pochi anni anche noi compagni di liceo eravamo entrati nel giro dell’underground e la maggior parte ne è uscita in un modo o nell’altro. Quando Annabella Miscuglio è morta sono tornati tutti al Filmstudio per la cerimonia laica e ognuno si è seduto in sala esattamente dove era abituato a farlo, i cinéphile a sinistra i contestatori a destra, gli incerti o i cineasti in fondo, ma la maggior parte strabordava in strada tanto pubblico era arrivato, proprio come quando si programmava la rassegna «Erotica underground» oppure Io sono un autarchico di Nanni Moretti.

Filmstudio, mon amour Toni D’Angelo (si presenta alla Festa del Cinema Roma il 21 ottobre al Greenwich) è riuscito a cogliere, a dispetto del cambiamento dei tempi, esattamente lo spirito che ancora deve aleggiare in quelle sale più volte rimaneggiate. Lo spettatore potrà aggiungere i suoi personali ricordi, ma la fluidità del racconto, l’armonia degli intrecci raccordati con la musica di Alvin Curran ci mostra la stupefacente adesione del regista a un’epoca che era finita quando lui non era ancora nato. Il Filmstudio era nato il 2 ottobre 1967 in quella via dal nome misterioso che terminava in un ancora più misterioso giardino. Si sarebbe potuto vedere passare Dominique Sanda spingendo un passeggino indossando un visone biondo lungo fino ai piedi, Herzog al tavolo della trattoria a parlare della vita delle rane, i Taviani avevano il loro studio poche case più avanti, sopra abitava un guru del Super8.

Ma ecco ancora i ricordi personali. Così procede il film, tra lo sganciamento di questa «bomba atomica su Roma» che indicò la strada ad altre esperienze simili, le cantine di teatro e di musica e le testimonianze dei tanti spettatori, ognuno con i suoi ricordi, non solo testimoni ma anche artefici de quella rivoluzione culturale (e mai ci furono persone più pacate di Annabella Miscuglio e Americo Sbardella che la misero in atto). Parlano Alfredo Leonardi, Giovanni Lussu il grafico della geniale tessera e delle locandine, Vittorio Taviani, Verdone, Bertolucci che al Filmstudio, ricorda, arrivava a piedi, Moretti e il suo straordinario esordio, Jonas Mekas seduto in fondo con la sua valigia, Tonino De Bernardi che se fosse vissuto a Roma e non in Piemonte avrebbe certo inserito molti di quei personaggi che gravitavano al Filmstudio tra i suoi dei. Warhol e Godard. E poi naturalmente Alberto Grifi, di cui campeggiava all’ingresso (ma questo non si può vedere) come un totem il suo vidigrafo. Toni D’Angelo riesce a raccontare in questo intreccio di personaggi e opere la complessa vicenda sperimentale di Grifi e delle istituzioni che sperimentarono la repressione su di lui, e lo stesso fecero con Braibanti. E lo stesso fecero con Annabella Miscuglio che dopo aver realizzato insieme al collettivo di donne il Processo per Stupro che cambiò per sempre il senso della televisione, una svolta decisa nella storia del documentario, e del cinema femminista e con AAA offresi proseguiva sulla stessa strada, fu pesantemente censurata, una censura che dura ancora oggi (la Rai ad esempio non concede il Processo per stupro alla pubblica visione, figurarsi il vietato AAA offresi. Motivi di diritti? di processi ormai conclusi?).

Armando Leone che ha raccolto il testimone di quell’epoca con pragmatica efficienza conduce il regista nell’accogliente dimora e vediamo intervenire parecchi ragazzi del Politecnico cinema di una volta perché a un certo punto, in un momento di crisi più forte degli altri il Filmstudio decise di unire le forze con quel cineclub spuntato al Flaminio (dopo lunga ricerca di sale) tutti compagni di liceo stanchi di girare nelle sale parrocchiali di Roma alla ricerca di film e desiderosi di lanciare una programmazione mai vista: Bruno Restuccia che stupì Scorsese e Coppola, Guastini il re dell’organizazione, Roberto Silvestri dotato di ultravista. Manca nel film solo Giovanni Spagnoletti che aprì la strada alla più grande novità di quegli anni, il nuovo cinema tedesco e fece arrivare il giovane Wim Wenders, Herzog, Syberberg e gli altri. Adriano Aprà che alla chiusura della rivista Cinema &Film diresse il Filmstudio e ne curò la programmazione, può ben dire che il cineclub non aveva nulla da invidiare a qualunque altro cineclub estero. Filmstudio, mon amour è cinema nel cinema, per non dimenticare. E veniva sempre anche Paolo Zappelloni, seduto davanti anche se era alto.