Uscito nel giugno del 2014 su The Atlantic, «The Case for Reparation» di Ta-Nehisi Coates, è stato uno dei saggi giornalistici più discussi degli ultimi anni. Diciassette pagine, meticolosamente ricercate, intensamente sentite, per provare che l’America non è entrata nella fase post-racial che molti hanno auspicato dopo l’elezione di Barack Obama. Che – lungi dal progresso di cui lo stesso presidente (seppur con cautela) parla nei suoi frequenti discorsi sulla razza – l’eredità della schiavitù è ancora, a tutt’oggi, il marchio predominante nei rapporti tra bianchi e afroamericani, è la sua unità di misura.

Proprio per tale ragione, argomentava Coates, la base su cui costruire la possibilità di un riequilibrio delle parti deve passare, prima di tutto, attraverso un risarcimento economico per i danni subìti dalla comunità nera. Da quel risarcimento materiale, potrà scaturire un giorno la premessa del risarcimento emotivo e psicologico, entrambi necessari per sanare la frattura – uno sforzo morale, questo, secondo l’autore, che potrà funzionare solo con l’impegno dell’intera nazione.
Poche settimane dopo la pubblicazione dell’articolo, Eric Garner moriva soffocato dalla stretta al collo di un poliziotto sull’asfalto di Staten Island, seguito a breve distanza da Michael Brown, crivellato di proiettili a Ferguson, Missouri, da Tamir Rice, Akay Gurley, Walter Scott…. fino ai nove morti nella chiesa metodista di Charleston, nel giugno scorso. Nell’arco di tempo in cui si consumava questo stillicidio di omicidi ingiustificati, Coates ha continuato a scrivere su The Atlantic – i suoi blog, gli articoli e le frequenti apparizioni televisive sono stati un accompagnamento erudito, e un’ispirazione, per le manifestazioni organizzate da #BlackLivesMatter e #ICan’tBreathe.

Il distacco dall’utopia
Nello stesso periodo, il quarantenne autore di Baltimora ha scritto anche un libro, Between the World and Me (edito da Spiegel & Grau), molto diverso nel linguaggio e nelle ambizioni dai suoi saggi di giornalismo e che, dalla sua pubblicazione nell’agosto scorso (è appena uscito pure in Inghilterra), è diventato un caso letterario: definito da Toni Morrison «una lettura imprescindibile», secondo il New York Times, è «essenziale, come l’acqua e l’aria». Recentemente, Coates è stato nominato per i National Book Awards, mentre è di ieri la notizia che lo scrittore è tra i vincitori della McArthur, la prestigiosa borsa di studio conosciuta come genius grants, che offre agli assegnatari uno stipendio di 625mila dollari in cinque anni, senza alcun vincolo creativo.

Il titolo del libro di Ta-Nehisi Coates, traducibile come «tra il mondo e me», è tratto da una poesia di Richard Wright – la distanza che implica quella tra chi scrive e l’american dream, «il Sogno» articolato a immagine, somiglianza e a uso di – la citazione è da James Baldwin – «coloro che pensano di essere bianchi».
Baldwin, e il suo The Fire Next Time (1963), un libro scritto in parte come una lettera al nipote, hanno ispirato, anche dal punto di vista della struttura letteraria Between the World and Me, in cui Coates si rivolge a suo figlio quindicenne, Samori.

«Ti scrivo nel tuo quindicesimo anno, perché questo è l’anno in cui hai visto Eric Garner strangolato per aver venduto delle sigarette; perché adesso sai che Renisha McBride è stata ammazzata mentre chiedeva aiuto… E perché adesso sai, mentre prima lo ignoravi, che i dipartimenti di polizia del tuo paese sono stati investiti dell’autorità di annientare il tuo corpo. Non importa se quella distruzione è il risultato di un eccesso involontario. Non importa se ha la sue radici in un’incomprensione. Vendi sigarette senza il permesso e il tuo corpo potrà essere distrutto. Resisti a chi cerca di intrappolare il tuo corpo, e potrà essere distrutto. Imbocchi una scala buia e il tuo corpo potrà essere distrutto. Raramente i distruttori saranno ritenuti responsabili. Molti di loro riceveranno la pensione. E quella distruzione è semplicemente il superlativo di un dominio le cui prerogative includono perquisizioni, arresti, pestaggi e umiliazioni. Tutto ciò è comune per la gente nera. Tutto ciò è antico. E non c’è mai un responsabile».

Coates è ateo, il suo pensiero teorico saldamente ancorato sulla terra, ma la prosa del libro echeggia la grande tradizione degli oratori religiosi afroamericani, di cui fa parte anche Barack Obama. Diversamente dai suoi testi giornalistici, fitti di dati e informazioni (il più recente, sulla mass incarceration come storico strumento di repressione dei neri, è nell’ultimo numero di The Atlantic), questo libro di centocinquantadue, densissime, pagine (che si fanno rileggere più volte), ha la carica emotiva e la profondità intellettuale di un lamento poetico; in una vena meno simile agli scritti di autori afroamericani della scorsa generazione, come Henry Louis Gates o Cornel West, più vicina a quella dei suoi modelli (Wright e Baldwin), arricchita però di grinta e cadenza hip hop. Da ragazzo, racconta infatti Coates, sognava di diventare un rapper e un poeta, non un giornalista. E così, insieme ad Amiri Baraka, Frederick Douglass, Sonia Sanchez, Zora Neale Hurston, e Robert Hayden, nel suo libro appaiono anche Nas, Big Boi e Wu-Tang Clan.

«Gli americani credono nella realtà della ’razza’. La immaginano come qualcosa di definito, indiscutibile, che appartiene al mondo naturale… Ma è il razzismo ad aver generato la razza, non viceversa», scrive Coates nelle prime pagine di questa epistola in cui ripercorre, per Samori, la sua infanzia a Baltimora dove il padre, un veterano del Vietnam, ex Black Panther e grande bibliofilo (a lui era in parte dedicato il primo libro di Coates, The Beautiful Struggle) lo ha incoraggiato a leggere moltissimo, fin da piccolo.

«La schiavitù non è una massa di carne indefinibile. È una donna precisa, specifica, ridotta in schiavitù, la cui mente è attiva come la tua, la cui gamma di sentimenti è vasta come la tua; che preferisce il modo in cui la luce cade in un angolo particolare del bosco, a cui piace pescare nei piccoli gorghi nel ruscello lì accanto, che ama sua madre in modo complicato e personale, pensa che sua sorella parli troppo ad alta voce, ha una stagione favorita ed è bravissima a farsi i vestiti…», scrive in un altro passaggio Coates. A volte, ha anche accusato Obama di usare un tono troppo generalizzato e paternalistico quando parla di come risolvere i problemi della comunità nera. Spesso, si è posto come «l’altro polo» rispetto al presidente in un’ipotetica conversazione sulla razza (i due si sono incontrati alcune volte, e lo scrittore è stato invitato alla Casa Bianca, ndr).

Dalla paura vissuta crescendo nelle strade di Baltimora («essere nero era essere nudo, esposto agli elementi del mondo; a tutte le pistole, i pugni, i coltelli, il crack, lo stupro e la malattia. E quella nudità non era un errore, una patologia, ma l’obbiettivo inteso e raggiunto di una politica, l’esito prevedibile di un popolo costretto per secoli a vivere nella paura»), alla Howard University («ho cominciato a vedere il mondo dei neri aprirsi di fronte a me, a capire che èmolto più del riflesso di quello di coloro che pensano di essere bianchi»), ai primi reportage giornalistici, al primo viaggio fuori degli Usa, a Parigi (dove vive attualmente), il tono del libro è intimo, i personaggi – famigliari, compagni di scuola, insegnanti…- sono descritti in modo particolareggiato, con affetto. Siamo nel romanzo di formazione.
Morti inutili
Anche Coates, racconta al figlio, quando era giovane è rimasto segnato da una morte inutile, simile a quelle di Michael Brown e Eric Garner. Il ragazzo si chiamava Prince Jones; era un amico, uno studente nella stessa università, bravissimo a scuola, che voleva diventare medico. Invece, nel 2000, è rimato ucciso da un colpo alla schiena sparato da un poliziotto che lo aveva scambiato per un altro. Il responsabile non è mai stato processato, e non ha perso il posto.

Alcune delle pagine più commoventi del libro narrano proprio l’incontro, anni dopo, tra Coates e la madre di Prince Jones, la dottoressa Mabel Jones, discendente di una famiglia di schiavi della Louisiana, che ha servito in Marina, è diventata primario di radiologia e vive in un agiato villaggio residenziale vicino a Philadelphia. Nel loro incontro, davanti a un albero di Natale, su cui è stata appesa anche una calza anche per il figlio che non c’è più, la dottoressa cita Salomon Northup, il protagonista di 12 Years A Slave: «Aveva una vita, una famiglia. Era benestante. Viveva come un essere umano. È stato sufficiente un atto di razzismo a riportarlo indietro. Lo stesso è successo a me. Ho passato anni a coltivare una carriera, dei beni, ad acquisire responsabilità sempre più importanti. E poi un atto di razzismo… Basta quello».

Per Mabel Jones, per Samori, e per chi legge, Ta-Nehisi Coates non ha parole di consolazione, di speranza o di incoraggiamento. «In America distruggere il corpo nero è una tradizione, è parte del retaggio», scrive in uno dei suoi passaggi più duri. E, lasciatosi alle spalle la casa benestante della dottoressa Jones, costeggiando un ghetto, con i suoi segni distintivi («l’abbondanza di pettinatrici, le chiese, i negozi di liquori, e le case cadenti»), Coates ci lascia, in una giornata di pioggia, con la sensazione di «quella vecchia paura».

 

SCHEDA

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Ta-Nehisi Coates dal 2 al 4 ottobre sarà in Italia, a Ferrara per il festival di Internazionale e parteciperà a un dibattito sugli Stati Uniti e il razzismo con Gary Younge e Isabel Wilkerson. Fra i suoi nuovi compiti, figura la sceneggiatura della nuova serie di «Black Panther», fumetto della Marvel che narra le avventure del supereroe sovrano dello stato africano immaginario del Wakanda. Ancora inedito in Italia, autore di bestseller come «The Beautiful Struggle» e «Between the World and Me» nonché corrispondente per «The Atlantic» e columnist per quotidiani come «Washington Post» e «New York Times», Coates lavorerà alla testata per un anno: «Black Panther» verrà lanciato la prossima primavera, in concomitanza con l’uscita nelle sale di «Captain America: Civil War», che vedrà Pantera Nera tra i personaggi principali; è previsto invece per il 2018 un film da protagonista assoluto. Il disegnatore sarà Brian Stelfreeze, autore della copertina del primo albo. Lo scrittore svolgerà lo storyarc, «A Nation Under Our Feet», ispirato all’omonimo romanzo di Steven Hahn: una rivolta scuote il paese, scatenata da un gruppo di terroristi sovrumani.