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Un siciliano in America

Un siciliano in AmericaTony Scott al clarinetto

Anniversari/Tony Scott avrebbe compiuto cento anni il 17 giugno Il clarinettista è stato tra i principali artefici della Third Stream Music. Ripensando al Pop Festival, all'ossessione per «Lush Life» di Duke Ellington e al sodalizio speciale con Billie Holiday

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 19 giugno 2021

Luglio 1970. A Palermo è in corso il Pop Festival, Woodstock insulare e mediterranea che per la prima volta offre a una moltitudine di giovani coi capelli lunghi e molta voglia di stare assieme un assortimento piuttosto frastornante di musica di diversi generi, in continua rotazione sul palco. C’è il jazz tradizionale, c’è la canzone francese, qualche arruffata punta di «beat», come si diceva allora, qualche virata più decisa nel rock (annunciato da quei Led Zeppelin nell’immagine del poster che a Palermo, in realtà, non arrivarono affatto). E poi c’è lui, l’americano di Sicilia, o forse il siciliano d’America. Quando sale sul palco con il suo clarinetto la furia esplosiva della sua «Blues Soul» fa scattare in piedi le persone. Una ragazza comincia a ballare sul palco, un’altra, che lascia molto intuire delle sua bellezza di ventenne (è Loredana Bertè!) la segue a ruota, ed è quasi una danza «trance».

PRODIGIO INQUIETO
Il siciliano d’America, allora col cranio rasato come una palla da biliardo e il clarinetto che erutta la medesima forza squassante e acidula che emanava dalla campana dei sax di Coltrane e Shepp, e prima ancora di Parker, è Tony Scott. Un trionfo. Potete trovare il filmato facilmente in rete. Tony Scott, uno dei più grandi e inquieti talenti della storia del jazz, incarnazione vivente di quanti semi vitali le ondate di emigrazione di italiani nelle Americhe abbiano portato alle note afroamericane avrebbe oggi cent’anni. Era nato il 17 giugno del 1921. Ricordarlo, nel suo immenso e fors’anche debordante talento è un bel modo per riassestare molti, molti pezzi della storia della musica che senza di lui sarebbe stata un’altra cosa. Perché Tony Scott è stato un prodigio agitato e mercuriale, un’anima inquieta ed esploratrice, tra le righe del pentagramma, un eterodosso irriducibile ad ogni ortodossia, fosse anche quella, la meno ortodossa di tutte, che definiamo «jazz».
Tony Scott era figlio di emigrati da Salemi, nel trapanese: suo fratello – clarinettista e chitarrista – aveva fatto in tempo a nascere lì, dove lo zio dirigeva la locale banda, lui aprì gli occhi a Morristown, figlio di un barbiere che suonava, e bene, il mandolino, come tanti emigrati (lo stesso Tony poi, lo imbracciò in un disco), e di una madre buona violinista. Il vero cognome, poi americanizzato in Scott era Sciacca. Lui fu chiamato Anthony Joseph. Gli piacque subito il clarinetto, il suo primo strumento fu di metallo, e il primo maestro un italiano, un panettiere che di cognome faceva Pellegrino. I suoi primi studi furono in istituti di musica classica: tra gli altri la celebre Julliard School of Music, tra il ’40 e il ’42. Intorno pulsava lo swing trascinante in fase matura: Tony Scott si innamora del jazz ascoltando in radio Jimmie Lunceford, Louis Armstrong e Duke Ellington, che gli schiude inediti panorami timbrici, e col quale poi riuscirà anche a suonare. Però attorno pulsa una nuova musica, nervosa e guizzante, aperta a spericolate avventure ritmiche, il bebop: e Tony Scott, con il suo clarinetto (e assieme all’amico rivale anch’egli di origine italiana Buddy De Franco) è uno dei pochi clarinettisti a partecipare alle competitive e affascinanti jam session con i nuovi musicisti del bebop nei locali della 52ma strada: ci sono Charlie Parker e Dizzy Gillespie, Bud Powell e Monk.

STIMOLI DIVERSI
Lui già molto giovane ha assorbito e rielaborato stimoli diversi e convergenti verso la sperimentazione: dalla musica classica ha appreso alla perfezione le leggi del contrappunto, ma con un maestro come Stefan Wolpe, alla Contemporary School of Music, ha imparato a lavorare alla costruzione di pezzi atonali basati sugli intervalli tra le note, non gli accordi: un modo per aggirare le cadenze tonali. Gli interessano le scale modali, a questo proposito e già nel 1956 scrive un brano come Aelonian Drink Song e lo suona insieme a un giovane e timido pianista che ha appena scoperto, e a cui ha dato fiducia, Bill Evans.
Sarà Miles Davis a capitalizzare il tutto, e proprio con Bill Evans al pianoforte tre anni più tardi, con il «modale» Kind of Blue. Lui intanto suona con John Lewis, con Gunther Schuller: è la third stream music, note che si muovono ibride tra classica e jazz. Nel ’46 Tony Scott aveva accompagnato Sarah Vaughan nel suo esordio discografico All Too Soon, ma nel cuore, come voce guida, aveva colei che sarà per sempre sua amica, confidente e collaboratrice: Billie Holiday, con la quale scrive la splendida Misery, e per cui suona il piano, arrangia, è direttore d’orchestra: ad esempio nel memorabile Lady Sings the Blues.

GIRAMONDO
Tony Scott, si sarà compreso, sin dall’inizio non guarda ai «generi»: suona, sperimenta, volteggia come un’ape tra fiori dai colori diversi, mantenendo immutato lo stile spiritato, trascinante ed espressionista dei suoi «soli» al clarinetto, tutto tranne che un’imitazione del clarinetto «swing» alla Benny Goodman. Nel ’57, ad esempio, suona in Francia nello stesso periodo con Sidney Bechet, decano del jazz classico, e con John Coltrane. Lo stesso anno in cui approda in Sud Africa, e incide session visionarie assieme ai Penny Whistle Serenaders, pura anticipazione della world music a venire.
Ellington rimane un perno centrale nella sua poetica: tant’è che Lush Life, il brano portato in dote a Ellington da Billy Strayhorn, uno degli standard più difficili della storia del jazz, resterà un’ossessione per Tony Scott: che a quell’unica canzone dedica un intero disco con tredici versioni diversissime, una delle quali addirittura una sorta di «proto rap». Nel ’56 è direttore musicale per Harry Belafonte: che incamera il successo planetario della Banana Boat Song e di Matilda, arrangiati e suonati dall’orchestra di Tony Scott.
Dopo il ’59, l’anno in cui muore Billie Holiday, Tony Scott diventa un apolide giramondo alla ricerca delle sintesi possibili e mai tentate, a partire da lunghi soggiorni in Oriente: del ’63 è Music for Zen Meditation, assieme a musicisti giapponesi con koto e flauto shakuhachi, del ’67 un complesso tentativo di integrare le sue note con la musica classica indonesiana, del ’68 Music for Yoga Meditation and Other Joys, tutti lavori che, senza mezzi termini, prefigurano world music e new age a venire, che da lì trarranno un immenso serbatoio di idee e pratiche. Negli anni Settanta Tony Scott ha base italiana, anche se trova il modo di incidere notevoli session con musicisti senegalesi. È un tramonto contemporaneamente dimesso e incendiario: Tony Scott ormai sperimenta anche con l’elettronica. L’Italia, come ha ben messo in luce Francesco Marenco, regista di Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz, magnifico docufilm del 2010, lo considera perlopiù un eccentrico anziano signore un po’ provocatore che dice e suona cose strane, una gloria consunta e bizzarra. Tony Scott è morto a Roma il 28 marzo del 2007, a 85 anni. Riposa nel cimitero monumentale della sua Salemi.

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