Di cosa parliamo quando parliamo di crisi dell’editoria italiana? Certo ci sono i numeri
degli studi e indagini di settore che parlano di fatturati più che dimezzati per l’intero comparto. Secondo il recente rapporto «Più lettura, più comunicazione», realizzato da Fieg, Assocarta e altre associazioni di settore, il valore complessivo del fatturato dell’editoria quotidiana è passato da 3,859 miliardi di euro del 2007 ai 1,985 miliardi del 2015. Ma al di là di questi dati, che illustrano chiaramente un generale e netto ridimensionamento dell’editoria italiana, ci sonoancora delle domande importanti da porre, ad esempio: quando è realmente iniziata questa crisi, quantole scelte strategiche e industriali hanno influito nel determinarelasituazioneattuale?
La crisi mondiale del 2007 e la diffusione planetaria di Internet che l’hanno preceduta, hanno rappresentato una combinata letale per gli editori,madare la colpa unicamente a loro sarebbenonsolo sbagliatomaanche superficiale. Il primo tassello del puzzle da costruire per capire la crisi della carta stampata è rappresentato dai prodotti «collaterali», una storia interessante da raccontare se si vuole capire quale era realmente lo stato di salute dell’editoria italiana al momentodi esseretravoltadalla grande crisi globale. Il «fenomeno» de iprodotti collaterali è stato infatti il grande
escamotage per rilanciare le vendite in edicola con i quotidiani e le riviste a fare quasi da mero supporto fisico a prodotti vari, dai libri ai volumi di enciclopedie, dai cd ai dvd (e ancora prima levideo cassette) fino alle borse e oggettistica varia venduti ovviamente con sovrapprezzo. Lo stratagemma ha funzionato, e anche molto bene, per alcuni anni: nel 2004 probabilmente l’apice di questo fenomeno editoriale il valore dei prodotti collaterali in abbinamento per i soli primi nove mesi dell’anno – secondo uno studio del Sole24 Ore–per i nove maggiori editori quotati in borsa ha raggiunto i 550 milioni di euro (ovvero il 13,2% del loro fatturato complessivo).
Solo due anni dopo nel 2006 il loro valore era sceso a 455milioni, una cifra ancora del tutto rispettabile ma che segnalava chiaramente che il «fenomeno» stava mostrando la corda. E infatti l’effetto miracoloso dei «collaterali» sui bilanci degli editori italiani era destinato a essere solo un bel ricordo: 271
milioni di euro nel 2008.  All’alba degli anni della grande crisi quello che molti tra gli editori avevano immaginato come uno strumento straordinario e destinato a durare per sempre . «Il boom dei prodotti”collaterali” allegatiaquotidianieperiodicidimostrala
forza del brand dei giornali che conservano nei confronti dei lettori “una grandissima forza di convincimento” confermandosi veri e propri opinion maker» dichiarava nel 2005 l’allora presidente della Fieg Sebastiano Sortino. Un boom destinato tuttavia a una repentina caduta verticale.
Una tendenza che viene confermata anche guardando alle vicende di Rcs, in particolare quale è stato il ruolo dei collaterali nei bilanci del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport: nel 2004 (anno come già visto nel quale raggiungono il loro livell massimo) i «collaterali» valevano 199 milioni, ovvero il 45% dei
ricavi editorialidella divisione «Quotidiani Italia». Ma anche qui i segnali di costante cedimentosi fanno evidenti negli anni: nel 2008 si scende già a 105 milioni e poi a 83 milioni nel 2010 (27%dei ricavi editoriali) e infinea 78milioni nel 2015 (conun peso pressoché identico 28% sui ricavi editoriali). Ovvero una flessione costante che in 12 anni risulta di 120 milioni di euro. In quello stesso periodo la flessione dei soli ricavi editoriali del Corsera e Gazzetta è di 150 milioni di euro. Il crollo dei collaterali è risultato quindi letale per i conti dei quotidiani di Rcs (e certo non solo loro). C’è tuttavia da chiedersi perché ci si sia affidati con eccessivo entusiasmo – e senza alcun tipo di «piano B» – a uno strumento che anno dopo anno dava segnali evidenti che non poteva più garantire in eterno quei numeri e quei tassi di crescita che tanto entusiasmo avevano creato tra gli editori. Un errore di valutazione che costerà caro a tutto il comparto. Se poi si stabilisce un rapporto tra Rete e fatturati la situazione diventa più articolata e meno lineare rispetto al senso comune che assegna al web un ruolo di killer della carta stampata.
L’Italia non è un paese per internettiani, poco connessa con un indice di diffusione di internet di circail 60% di utenti attivi sul totale della popolazione (quando in altri Paesi europei come Francia, Germania, Regno Unito si viaggia intornoall ’85-90%). A questo si deve aggiungere anche che la struttura dei ricavi pubblicitari nel suo complesso nel nostro Paese è ancora strutturata quasi all’epoca pre-digitale, ancorata a un sistema Tv-centrico. Secondo i dati Nielsen il mercato pubblicitario in Italia ha avuto nel 2015 unvalore complessivo di 6,27miliardi di euro dei quali 3,65 miliardi, ovvero il 58%, sono quelli intercettati dalla televisione. Con due terzi dei fatturati per la pubblicità fagocitati dalla televisione al resto dei media non restano che le briciole: Internet nel 2015 ha raggiunto una quota del 7% mentre – sempre secondo Nielsen –quotidiani e periodici assieme valgono il 20%.
Uno scenario, va detto, che rappresenta un’anomalia nel resto degli altri maggiori Paesi. Se guardiamo ad altre stime – quelle realizzate da Zenith Optimedia per il «World Magazine Trends 2014-2015» – nel 2015 in Italia la fetta pubblicitaria della televisione è al 47,4%: una quota parte nettamente superiore ad esempio a quelle della Germania ferma al 23%  o a quelle del Regno Unito (24%) e della Francia (31%). C’è anche da sottolineare la differenza di volume complessivo con la Germania e il Regno Unito che – sempre secondo le stime di Zenith Optimedia – raggiungono una spesa complessiva pubblicitaria di circa 25 miliardi di dollari,
mentre la Francia è attestata sui 13 miliardi e l’Italia è ferma a 8,8 miliardi di dollari.
La particolare situazione de lmercato pubblicitario dell’Italia non rende facile agli editori e inserzionisti puntare con convinzione sul digitale. C’è da aggiungere, tuttavia,che poco è stato fatto da editori e inserzionisti per modificare questa anomalia a differenza di altri paesi che hanno puntato ad Internet per allargare il mercato e non semplicemente per sostituire una voce di ricavo con un’altra. Resta il fatto che per quanto riguarda i maggiori gruppi editoriali italiani il digitale stenta a decollare: al «Gruppo Espresso» il suo peso sultotale dei ricavi
nel 2015 non riesce ancora a superare la quota del 10% ( più precisamente si ferma al 9,5%) a Rcs si arriva al15,8% ma si è ancora decisamente distanti dagli obiettivi che ci si era posti nel piano di sviluppo targato Scott Jovane – l’amministratore delegato proveniente da Microsoft che a molti sembrava incarnare il manager ideale per gestire la fase di transizione digitale – che aveva previsto di raggiungere a fine anno scorso una quota del 25%. La crisi globale ha ovviamente colpito tutti. Ma non allo stesso modo. Anzi c’è anche chi, comunque, ha continuato a crescere: ad esempio l’editore tedesco Axel Springer (la Bild, Die Welt e un universo di riviste e siti online) che ha dichiaratoneisuoibilanci fatturati per 2,6miliardi di euro nel 2007 e poi 2,8 miliardi nel 2010 per arrivare infine ai 3,3 miliardi di euro a chiusura dello scorso bilancio annuale (con un +28% nel periodo dal 2010 al 2015).
Nel medesimo periodo, se prendiamo a riferimento i due maggiori gruppi editoriali italiani, Rcs subisce una flessione dei fatturato de l54% e il «Gruppo Espresso» del 32%. Certo non tutti possono vantare uno stato di salute come il colosso tedesco dell’editoria. Il «Guardian Media Group» (l’editore del Guardian e dell’Observer) si è ad esempio trovato a dover affrontare un drammatico ridimensionamento dei propri ricavi che sono passati dai 752 milioni di sterline del 2005 ai 215 milioni del 2015. In questo panorama però va detto che sia editori in crescita come appunto Axel Springer o in difficoltà come il Guardian hanno pianificato strategie editoriali, perseguendole, nel bene e nel male,con coerenza: ilGuardian–certo, oggi al centro anche di polemiche interne per il rosso in bilancio del 2015 ancora peggiore
del previsto – è comunque ancora oggi uno dei punti di riferimento della rivoluzione digitale nei grandi quotidiani internazionali ed Axel
Springer è un editore molto attento anche alle trasformazione digitale come dimostra la recente acquisizione sito di news on line Business Insider per 450 milionio l’investimento di 3 milioni di euro (assieme alNewYork Times) in Blendle una startup molto innovativa che punta a costrure alternativa aipaywall peripagamenti in campo editoriale. In Italia niente di tutto questo: nessun grande investimento nel digitale (tranne che al Gruppo 24 Ore che però ha dovuto vendere l’area software per finanziarli), nessuna attenzione a startup innovative, si è preferito puntare grandi somme nella «vecchia» televisione, come ha fatto Rcs buttando 10 milioni di euro in «Gazzetta Tv» per poi abbandonare il progetto un anno dopo. Insomma l’impressione è che per il momento la vera grande strategiaper imaggiori editori italiani sia stata quella di navigare a vista.