Il seriale di turno lo chiamano il Cane. Non i comuni cittadini bolognesi, che al quarto cadavere smembrato ancora ignorano la sua criminosa esistenza, ma i poliziotti e i carabinieri che, per una volta quasi insieme, gli danno la caccia. Tra questi c’è Grazia Negro: nell’esercito di commissari e graduati vari che hanno ripopolato il noir italiano, è la più simpatica e riuscita, col suo accento salentino da terrona trapiantata nell’operoso nord e con i modi spicci a metà tra la brava ragazza di paese e la sbirra tosta. Come protagonista unica, la poliziotta inventata da Carlo Lucarelli latitava da ben 13 anni, anche se nel 2010 si era trovata fianco a fianco addirittura col collega Montalbano, in un libro scritto a quattro mani da Lucarelli e Andrea Camilleri. Stavolta torna a occupare il campo tutto da sola, alle prese con l’ennesimo mostro della porta accanto, in Il sogno di volare (Stile Libero Einaudi, pp.264, euro 18.00).
Il Cane non è il Grillo, però pare fatto apposta per raccontare il lato oscuro delle emozioni che al grillismo hanno dato forza e che ancora giacciono nel profondo dei sentimenti nazionali, in attesa che qualcuno di meno sprovveduto e più pericoloso arrivi a cavalcarle e pilotarle. Il Cane cova la stessa rabbia che coviamo tutti, vibra per gli sessi orrori e le stesse ingiustizie quotidiane che fanno infuriare chiunque abbia occhi per vedere e non prema le mani sulle orecchie per non sentire nulla. Però quella rabbia piega e degenera sul nascere in risentimento, sentimento basso che della rabbia è la altra faccia, quella ignobile e meschina, mortifera invece che vitale e molto più diffusa. In questo Paese il rancore è pane quotidiano, la rabbia, invece, non divampa neppure di fronte all’inconcepibile.
Il risentimento rancoroso si sfoga sempre contro i pesci piccoli, mai contro gli squali davvero voraci. Imbastisce, tanto per fare un non casuale esempio, gogne e ghigliottine contro i costi della politica, col solo risultato di lasciare senza lavoro una quantità di poveracci precari dati volentieri in pasto all’orda mediatica dai politicanti loro datori di lavoro. Poi glissa come se niente fosse sulle ingiustizie macroscopiche hanno reso l’Italia e l’Europa, un’utopia negativa fotocopiata da Charles Dickens. Questo assassino in serie, incazzato una volta tanto non per le violenze subite da bambino né animato da funeste ossessioni sessuali ma per ciò a cui deve assistere, come tutti, ogni santo giorno fa la stessa cosa. Si sfoga sul primo che passa. Fa a pezzi i pedoni e nemmeno si accorge dei re e delle regine. Vuol mangiare i cuori delle sue malcapitate vittime senza rendersi conto che sono frattaglie a prezzo popolare, non barbari trofei adatti al palato sanguinario di chi cerca la vendetta .
Quando Lucarelli ha iniziato a scrivere il libro, nel 2010, l’ondata velenosa che ha ingrossato qualche mese fa i forzieri elettorali di Beppe non era ancora un maremoto. Ma la corrente già tirava forte, e uno dei compiti di chi per mestiere scrive libri è cogliere i segnali con qualche anticipo sulla flotta nutrita dei commentatori quotidiani. Da allora quella tempesta di risentimento diffuso e rancorosità permanente, appuntati più sul vicino di pianerottolo che sugli abitanti dell’attico sociale, si è moltiplicata. Basta passare un’oretta in rete per trovare le orme dei tanti cagnolini che condividono i sentimenti della bestia protagonista di questo libro. Fortunatamente, non escono quasi mai dal perimetro dell’invettiva a mezzo web. Sfortunatamente, sono altrettanto inoffensivi per chi conta davvero. Il Cane, per il potere, è un barboncino da salotto.
Il segreto di Lucarelli, al fondo, sono proprio i suoi assassini. I suoi investigatori funzionano, una come Grazia vorremmo incontrarla tutti un giorno o l’altro, ma il pezzo forte è sempre il mostro, il killer, perché è lui che racconta in controluce la realtà profonda del Paese. I seriali di Lucarelli non sono mai banali proprio perché sono il riflesso di una realtà sociale mutevole, non di biografie o psicosi sempre troppo simili le une alle altre per dire qualcosa. Grazia e i suoi colleghi, da soli, non vanno oltre il racconto del degrado di una città, Bologna, che non si sente più «la grassa». Il Paese, come usa dire, non lo svelano loro ma quello a cui danno la caccia.
Sono più di trent’anni che il serial killer, figura sino ai tardi ’80 molto marginale, ha occupato militarmente l’intero campo dell’immaginario noir, spazzando via ogni assassino la cui azione appaia dotata di un qualche senso compiuto. Ma nel corso del tempo il massacratore psicotico ha cambiato più volte di segno e di ruolo. È stato l’ombra minacciosa che potrebbe sederti accanto celato dietro le apparenze più comuni, la metafora di una socialità sconfinante nella asocialità totale e nella giungla urbana, il riflesso di una zona oscura che in qualche misura alberga in ognuno. È stato il vampiro dei giorni nostri ma anche, con Hannibal the Cannibal, una specie di moderno Fantomas e persino, con Dexter, una sorta di eroe positivo. Forse mai però, prima del Cane, era stato il sintomo di un malessere sociale universalmente diffuso in un Paese e insieme dei sentieri distorti lungo i quali quel disagio si è inoltrato.
Il sogno di volare è un noir con dentro molto di giornalismo sociale e anche un po’ di giallo. Che funzionerebbe, con tanto di effettaccio finale, se, a due terzi del libro, Lucarelli non avesse piazzato un’indicazione sulla chiave dell’enigma più vistosa di un segnale stradale fluorescente. Impossibile non chiedersi perché lo abbia fatto, sacrificando così quasi per intero la componente che Hitchcock avrebbe definito (non senza disprezzo) whodunit, chi l’ha fatto. Forse perché la differenza tra chi scrive noir e chi fa gialli è che i primi, se vogliono fare centro, devono almeno provare a essere il più onesti possibile, mentre per i secondi, come Agatha Christie sapeva meglio di chiunque altro, un notevole tasso di disonestà è un ferro del mestiere.