Aadhya, la chiameremo così con uno dei nomi femminili più diffusi in India, ha quarant’anni, un marito e tre bambini. Lavora in una fabbrica di abbigliamento e si alza alle 4,30 della mattina per fare i mestieri e cucinare. Poi, via di corsa perché un solo minuto di ritardo le costa un’ora di paga. Il suo turno comincia alle 7,30 e nei giorni normali finisce fra le 18,30 e le 19,00, ma molto spesso le viene chiesto di fermarsi per gli straordinari. E’ svenuta due volte in fabbrica. La prima volta si è ripresa in pochi minuti, ma la seconda volta è stata trasportata dai colleghi in ospedale perché era caduta su un macchinario procurandosi un’emorragia interna. Quanto guadagna? La sua famiglia, di cinque persone, vive del suo reddito di operaia tessile che non supera gli 85 euro al mese.

LA STORIA DI AADYA è una delle tante contenute nell’ultimo rapporto che una rete internazionale di monitoraggio sul lavoro e i salari delle aziende che vivono di delocalizzazione ha appena dato alle stampe. Quello di Aadhya non è un caso isolato. In Bulgaria le lavoratrici di una fabbrica – la maggior parte dei lavoratori del tessile sono donne – raccontano che si lavora per 12 ore al giorno, sette giorni alla settimana, senza ricevere il salario minimo legale previsto per un normale orario di lavoro.

ALCUNE INTERVISTE anonime – per ovvi motivi – denunciano che in Bulgaria si può essere pagati anche meno del 10% del salario dignitoso minimo. In Turchia c’è chi percepisce circa un terzo del valore minimo stimato per un salario dignitoso mentre in Cambogia il livello dichiarato è pari quasi alla metà. La Cambogia è tristemente famosa per un caso che fece scalpore nel 2011: in una settimana, nello stabilimento cambogiano che riforniva la multinazionale del tessile H&M, circa 200 operai accusarono svenimenti per fumi di sostanze chimiche, scarsa ventilazione, malnutrizione. Ed è proprio H&M a essere al centro del rapporto che porta infatti il suo nome: “H&M: Le promesse non bastano. I salari restano di povertà”. E’ uno sguardo trasversale su una firma della moda internazionale che purtroppo si potrebbe forse trasferire su altre realtà.

Qualità e stile al miglior prezzo è lo slogan di Hennes & Mauritz, multinazionale svedese di abbigliamento e vendita al dettaglio nota per i suoi tagli fast-fashion per uomo, donna e bambini. Con diverse consociate e marchi opera in 69 Paesi con oltre 4.500 negozi reali e una diffusa attività su Internet in oltre trenta Stati.

IL SUO TEAM professionale sta per arrivare a oltre 160mila impiegati a vario livello ma lavora per lei un vero esercito sparso in tutto il mondo: circa 850mila persone cui aveva promesso di garantire un salario dignitoso entro il 2018. Cosa di cui non si vede traccia.

L’azienda, che vanta profitti per 2,6 miliardi di dollari e un fatturato nel 2016 di 223 miliardi, sostiene che: “Vogliamo rendere la moda sostenibile… L’impegno dei nostri dipendenti è la chiave del nostro successo. Ci dedichiamo a creare un futuro migliore per la moda e utilizziamo le nostre dimensioni per guidare lo sviluppo verso un’industria della moda più circolare, giusta ed equa”. Circolare, è vero. Giusta ed equa?

IL RAPPORTO, un lavoro della Campagna «Turn Around, H&M» coordinata dalla Clean Clothes Campaign e sostenuta dall’International Labor Rights Forum e da WeMove.EU., non la vede proprio così. E rivela che molti lavoratori e lavoratrici che producono abiti per H&M vivono sotto la soglia di povertà, nonostante le promesse dell’azienda di pagare un salario dignitoso entro l’anno: un vanto per chi vuole una moda «sostenibile».

IN SOSTANZA però, uno dei più grandi rivenditori al mondo di vestiti, ha una catena di fornitura con lavoratori costretti a ore eccessive di lavoro per pura sopravvivenza. Scarsi salari, straordinari eccessivi e l’onere aggiuntivo del lavoro domestico portano a malnutrizione, stanchezza e svenimenti sul posto di lavoro. Un terzo delle donne intervistate in India e due terzi in Cambogia – che lavorano nelle fabbriche classificate da H&M come «fornitori di platino» – sono svenute in azienda, com’è accaduto anche alla nostra Aadhya. Le lavoratrici bulgare denunciano svenimenti quotidiani. E può succedere che, se svieni troppo, arrivi il licenziamento. Si può svenire di nascosto? Accanto agli scioperi e alle spesso impossibili contestazioni dei lavoratori (che rischiano di esser messi alla porta) una leva importante sono i consumatori. All’interno della campagna «Turn Around, H&M!» si può firmare una petizione per chiedere salari dignitosi e condizioni di lavoro giuste in tutta la catena di fornitura di H&M. Le firme raccolte hanno già superato quota 100mila.

LE PROMESSE abbondano e non solo sulla bocca delle aziende. Ai lavoratori in Bangladesh sono pagati alcuni dei salari più bassi nel settore dell’abbigliamento globale. L’attuale salario minimo di 5.300 taka (l’equivalente di circa 63 dollari) non è stato rivisto dal 2013, ed è molto al di sotto di qualsiasi stima salariale credibile.

MA IL SETTORE è molto combattivo e anche organizzato sindacalmente. Un’ondata di scioperi, alla viglia delle elezioni, ha conquistato per ora la promessa di un salario minimo che scatterà a dicembre di 95 dollari (8mila taka), con un aumento del 51% anche se non è quello che i lavoratori chiedono. Un salario dignitoso è infatti considerato di almeno il doppio, ossia 16mila taka, una cifra che consentirebbe di vivere dignitosamente.

E comunque la promessa è per ora solo una promessa visto che sono cinque anni che il salario minimo è rimasto invariato e che la lobby locale dell’industria tessile, che guida l’economia del Paese, è potentissima.

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Di seguito una lettera di H&M e la risposta di Emanuele Giordana

Gentile dottor Giordana,
Con la presente mail le scriviamo in merito all’articolo da lei redatto e pubblicato questa mattina sul Manifesto. Ci spiace non essere stati contattati per potervi fornire il nostro punto di vista e garantire così un quadro obiettivo ai vostri lettori. Le chiediamo a questo proposito di integrare l’articolo con la nostra posizione di seguito. Rimaniamo a sua disposizione per qualsiasi chiarimento in merito.
Grazie e cordiali saluti.
Ufficio Stampa H&M Italia
“Il gruppo H&M ha avviato da diversi anni un dialogo con Clean Clothes Campaign, gli autori del rapporto, su come creare un cambiamento sistemico nel settore tessile. Rispettiamo la loro opinione e stiamo lavorando alla stessa visione – che i lavoratori del settore tessile debbano guadagnare un salario di sussistenza – ma non condividiamo il loro punto di vista sull’industria tessile e su come ottenere i migliori risultati. In primo luogo non esiste un livello universalmente accettato per i salari di sussistenza; in secondo luogo i livelli salariali dovrebbero essere definiti e fissati dalle parti nel mercato del lavoro, attraverso negoziati equi tra datori di lavoro e rappresentanti dei lavoratori, non da marchi occidentali. Questo è qualcosa su cui noi, esperti del settore, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) delle Nazioni Unite e i sindacati concordiamo.
I nostri sforzi negli ultimi cinque anni, insieme ad altri marchi, sindacati, l’ILO e altri partner, sono stati quelli di creare le basi necessarie per un migliore meccanismo di determinazione dei salari, di rafforzare la voce dei lavoratori e consentire le negoziazioni in fabbrica come a livello industriale. Attraverso l’innovativo accordo ACT (Action, Collaboration, Transformation), miriamo a sistemi di contrattazione collettiva a livello di settore, supportati da marchi che si impegnano a pratiche di acquisto responsabili. Questo è un modo per creare parità di condizioni e miglioramenti per tutti i lavoratori dell’abbigliamento, indipendentemente dalla fabbrica in cui lavorano e dai marchi che producono.
Siamo orgogliosi e pienamente impegnati nel nostro lavoro in quest’area. Con la nostra strategia di salario equo e solidale lanciata nel 2013, raggiungiamo più di 600 fabbriche e 930.000 lavoratori del settore abbigliamento, il che significa che abbiamo superato il nostro primissimo traguardo. La nostra collaborazione con altri esperti del settore, in combinazione con la nostra lunga esperienza di lavoro sul campo nei paesi produttori di abbigliamento, ci fornisce preziose conoscenze e ci rende fiduciosi di essere sulla strada giusta.
Tutti i fornitori con cui collaboriamo devono firmare il nostro Sustainability Commitment. Noi richiediamo che i fornitori paghino ai loro dipendenti almeno il salario minimo, che le ore di straordinario sono entro i limiti legali e correttamente compensate e che rispettino la legge nazionale. Controlliamo regolarmente che i nostri requisiti vengano rispettati e se riscontriamo violazioni intraprendiamo immediate azioni. Se il fornitore non apporta i miglioramenti necessari, poniamo fine al rapporto commerciale. Le affermazioni contenute nel rapporto secondo cui un certo numero di fabbriche di fornitori che producono per il gruppo H&M non pagano salari minimi non sono state confermate dai nostri audit globali e dai nostri programmi di valutazione che garantiscono che le fabbriche soddisfino i nostri requisiti minimi”.
Giulia Dodaro, Showroom Manager

RISPOSTA DI EMANUELE GIORDANA
La lettera a difesa di H&M mi sembra costellata soprattutto da buone intenzioni e buoni propositi ma non aggiunge un solo elemento – i salari effettivamente percepiti – che possa contestare i rilievi della Campagna CleanClothes. Non si tratta di “imporre” la nostra visione del mondo e la nostra idea di stipendio ma di fornire garanzie ai vostri clienti sul fatto che i prodotti creati in delocalizzazione per voi corrispondano effettivamente a salari dignitosi per chi lavora. Il che ancora, a quanto pare, non è (Emanuele Giordana)