Le metto insieme, anche se forse non è giusto, le emozioni forti di questo fine settimana. Vengono dal Sud, un Sud magico, travolto dalla violenza della Storia, carico di perdite e di spettri, eppure capace di rinascere con la tenerezza collettiva, il senso di comunità e l’immaginazione.

Le ho provate sabato a Riace, alla manifestazione per il bene di Mimmo Lucano, un sindaco meridionale arrestato per reato di ospitalità, un valore fondamentale, anzi un sacro dovere nella memoria e nella identità mediterranea e meridionale. Ancora oggi, nonostante la devastazione culturale, non puoi uscire da una casa del Sud d’Italia senza aver bevuto almeno un caffè o un tè alla menta, proprio come se fossi a Tunisi o a Marrakesh, dove «nabil» significa nobile in quanto generoso e ospitale. Del resto ospitale significa anche funzionale e, se sei astuto (e i levantini lo sono), capisci che il «forestiero», da fuori, ti porta nuove merci, magari sete e gioielli, o comunque nuove storie, di munacelli o di jiin, di streghe volanti o lampade magiche. Perciò, con quel sindaco così «sudicio», così meridionale, c’era, a stringersi, curiosa, la sua comunità, quel paesetto ripopolato intorno ad una piazza di botteghe artigiane, di salsa e vendemmia in comune e moneta inventata e storie condivise.

E c’erano i lavoratori migranti che, invece di scappare nel buio dell’esilio, hanno piantato nuove tende nella affascinante terra di Calabria su cui ricostruire dignità, lavoro e legami. E c’eravamo noi, scacciati dalla cattiva politica, nomadi nell’ideale, che in quel Sud ritrovato cercavamo di rimanere presenti nella storia, attivi verso l’utopia, la più concreta, civile, magia. E infine c’era anche Antigone, una giovane ragazzetta meridionale, un po’ greca, un pò tebana, certo mediterranea e materna, a ricordarci che non ha ragione Creonte quando comanda leggi senza pietà, leggi feroci a cui bisogna disobbedire quando impediscono l’ospitalità, perché, dice con lei Mimmo Lucano, «le cartine dell’anima e del tempo non hanno frontiere» e «non dobbiamo tirarci mai indietro pur di restare umani».

E infatti non si tira indietro Elia, che è l’altra mia emozione di questo straordinario, magico, fine settimana. Elia è il protagonista di un film visionario di un giovane regista meridionale, che ci dice dove sta, per tutti, «il bene mio», anche quando ci si sente distrutti, anche quando la morte, la miseria, un terremoto, ti hanno fatto perdere tutto. Il bene non sta nei soldi o in un progresso fatto di dimenticanza e di allontanamento, ma sta nella magia e nello struggimento per la propria terra, per i ricordi, per i volti delle persone con cui hai passato l’infanzia, per quei luoghi dove hai vissuto l’amore, perfino nei giocattoli rotti che però da bambino hai condiviso, insomma nei legami antichi di comunità, nelle radici. Accade però per magia, una magia per cui val la pena anche di essere considerato pazzo, che queste radici siano tue, ma proprio tue, e che siano anche di tutti, di tutti gli amici, della maestra e del sindaco e della ragazza impaurita che viene dalla Libia e si nasconde in quel paese ormai morto perché è clandestina.

Si chiama Nur nel film di Mezzapesa, che in quest’arabo pugliese significa la luce, luce di nuova vita che può ritornare a Bitonto, a Damasco e perfino ad Amatrice, quando qualcuno (basta uno) ritrova il senso della solidarietà. Non deve però mollare, non deve dimenticare, e anche se qualcuno parte, sul pulman improvvisato o sul barcone anche questo improvvisato, deve saper sempre portare dentro di sé la patria (anzi la matria, terramaterna e lingualatte). Come faceva il viaggiatore Ulisse, con Itaca nel cuore, e come facevano le vecchiette meridionali durante l’emigrazione, che nella loro nuova casa di Milano o di Torino, mettevano ben esposte nelle vetrinette le foto o le piccole reliquie di oggetti e di posti del loro cuore e delle loro radici.