Quando Lila entra in una chiesa della cittadina di Gilead, in Iowa, per ripararsi dalla pioggia, il vecchio pastore, John Ames, interrompe l’omelia, la guarda e, come riconoscendo il compimento di un disegno misterioso, benedice il nome del Signore. Dopo qualche tempo egli sposa quella donna giovane venuta dal nulla e da lei avrà un figlio. Questa è in breve la storia raccontata da Marilynne Robinson in Gilead (2004), premio Pulitzer per la narrativa, consistente di una lettera-testamento che, a pochi anni di distanza dal matrimonio, il reverendo, ormai giunto sulla soglia della morte, decide di destinare al figlio, affinché nella vita sia guidato alla comprensione e all’osservanza dei valori della fede cristiana. Tuttavia, quasi nulla ci viene detto di Lila, della quale si occulta persino il nome.
Nel ruolo di moglie e madre, taciturna ma apparentemente integrata nella comunità, essa riaffiora a sprazzi in Casa, il secondo romanzo di quella che nel 2008 si va costituendo come una trilogia sulla fede: e sulle opere che la fede può concretamente assumersi di compiere. Fanno da sfondo gli Stati Uniti degli anni cinquanta (anni molto simili ai nostri, dichiara Robinson in un’intervista), agitati in sordina da tensioni culturali (segregazionismo, matrimonio interraziale, crisi della famiglia, accettazione dell’altro: l’afroamericano, il diseredato), che sembrano sollecitare nuove risposte da un Cristianesimo (e da un Dio) da sempre chiamato a fianco della visionaria missione americana a sostegno della dignità dell’uomo. (Lo ricorda anche Obama in una recente conversazione con Robinson, quando le chiede del rapporto tra religione e democrazia).

Nella sua riflessione su un Cristianesimo meno fondamentalista, Robinson procede per exempla tipologici, alla maniera dei Puritani delle origini della nazione. Se in Gilead il motivo centrale pare essere quello della tarda paternità di Abramo (la fede nel padre Dio di contro alla crisi del padre o della legge), in Casa ella pone il problema della salvezza di Jack Boughton, il figlio reprobo di un collega di John Ames, tornato a casa dopo anni di autoesilio, per ottenere – da «figliol prodigo» – il perdono che il padre, arroccato sui sistemi di una rigida etica veterotestamentaria, non riuscirà a concedere.

Cos’è per un ministro della Chiesa protestante l’amore paterno di contro all’inviolabilità del giudizio di un Dio severo? È possibile la redenzione di un’anima perduta? Come accettare il principio della predestinata santità o perversione dell’uomo? E come provvedere a chi resta escluso? Robinson scuote i cardini del Calvinismo ortodosso. Sulla scorta di una rilettura revisionista di Calvino (una novità coraggiosa in America), in questo suo progetto dottrinale ella si cimenta con le sfide poste oggi – in tempi di crisi e di movimenti di popoli – dalla e alla conduzione di una vita cristiana in rapporto alle implicazioni teologiche relative alla salvezza dell’uomo, la grazia, il riconoscimento dello straniero, l’amore (l’agape necessaria al consorzio umano) e l’amore di Dio verso le sue creature, tutte le sue creature, inclusi i reietti, o la misteriosa Lila e Jack Boughton, l’unico che in Gilead ne sussurra una sola volta il nome.

Forse per dar corpo al muto enigma che ella rappresenta nei due precedenti romanzi e investirla di significato didascalico, Robinson ha pensato di dedicarle Lila (traduzione di Eva Kampmann, Einaudi «Supercoralli», pp. 273, euro 20,00), un’aggiunta alla saga, in cui si racconta la stessa storia di Gilead dal punto di vista non di John Ames ma di lei, la donna che diventerà sua moglie.

Chi è Lila? Una peccatrice, un’opportunista, una vagabonda che riconosce solo la strada come sua vera casa? Sembra di sì. Ma ciò che essa rappresenta – ed è in effetti nella sua funzione dottrinale – viene svelato sin dalle prime pagine del romanzo, e per via analogica, tramite un’ardita parabola tratta da Ezechiele sulla caduta di Gerusalemme e il suo ritorno nel regno messianico per volontà della misericordia divina (16, 3-6). La retorica accesa del passo è ampia abbastanza per includere altre, e più umili, figure di ‘caduta’, o di esilio, di abbandono e sofferenza. La stessa Lila vi trova una versione convincente della propria storia: «Quanto alla tua nascita – dice Ezechiele –, il giorno che nascesti l’ombelico non ti fu tagliato, non fosti lavata con acqua per nettarti, non fosti sfregata con sale, né fosti fasciata. Nessuno ebbe sguardi di pietà per te, per farti una sola di queste cose, avendo compassione di te, ma fosti gettata nell’aperta campagna, il giorno che nascesti, per il disprezzo che si aveva di te. E io ti passai accanto, vidi che ti dibattevi nel tuo sangue, e ti dissi: ‘Vivi, tu che sei nel tuo sangue’».
Il passo, che riecheggia contrappuntisticamente nel corso di tutto il romanzo, dischiude il miracolo di una vita salvata. La bambina che poi si chiamerà Lila viene raccolta sull’uscio di una casa da Doll, una donna dal volto sfigurato, che la lava, la nutre, la veste (la «fascia»), la sottrae alla morte, impara ad amarla e se ne prende cura durante gli anni di erranza sulle strade polverose dei braccianti senza lavoro della Grande Depressione. Fino a quando, rimasta sola, Lila approda in un bordello di St. Louis, e poi, infine, negli anni cinquanta, giunge per caso a Gilead.

A Gilead, dice la Bibbia, c’è un balsamo che risana le ferite. Non sarà dunque per scarso interessamento divino che quest’anima perduta entri in quella chiesa, dove la sua storia è destinata a ricominciare dall’inizio, proprio quando, nel giorno della Pentecoste, il reverendo Ames, che sta predicando, tace e la guarda come per dire in silenzio «Vivi». L’accoglierà, la laverà con il battesimo, le offrirà lavoro e amicizia, le procurerà degli abiti, dunque la vestirà, secondo un gesto che nell’esegesi biblica ha il significato di «prendere come sposa». La parabola si traduce in vita vissuta, e l’unione matrimoniale che in Gilead appariva inspiegabile – e tacitamente sconveniente agli occhi della comunità – trova in Lila la sua ragione teologica.

Ma la vicenda ha anche una sua precisa consistenza storica, e Robinson si prende cura di questo obiettivo con un’attenzione fin troppo dettagliata. Al punto da poter dire che una bambina «gettata via» nella campagna (una bocca in meno da sfamare) è un’immagine assai rispecchiante la tragedia della Depressione, ricostruita in flashback dalla protagonista con un realismo che supera il pathos di Steinbeck in Furore, anche nelle implicazioni simboliche – notoriamente bibliche – che a essa si sono attribuite. Resta viva la domanda: perché Dio permette la sofferenza? Difficile per il reverendo trovare le risposte al mistero del disegno divino. Può consolare – in segno di obbediente rassegnazione – il suo citare un Calvino addolcito: «le persone devono soffrire per saper riconoscere la grazia quando arriva».

L’amore, ha sostenuto Robinson in un’intervista, è una manifestazione della «grazia». È così per John Ames. Quanto a Lila, attraverso la memoria catartica della sofferenza, ella impara lentamente a riconoscere le diverse forme di amore e a trasformare la sua relazione con l’anziano reverendo in una ‘storia d’amore’ tutta umana, spoglia di ogni allegoria, e senza «lettera scarlatta». Una trasformazione che nel suo compiersi si accompagna a immagini di potenza poetica e simbolica. Epifanie fugaci, folgorazioni improvvise: uno stormo di lucciole che si accende nella notte, un pesce che guizza durante la cerimonia del battesimo in riva al fiume, il volo dei pellicani bianchi nell’autunno che si spegne.