Già sulla carta, la parola d’ordine di Sundance 2019 era «diversity». L’attenzione al cinema black, latino, native American, delle donne, Lgbt… è da sempre nel Dna festival di Redford, una delle sue ragioni di essere. Quest’anno, però, il nuovo direttore della programmazione, Kim Youtani, (promossa dal team dei selezionatori, dopo la fuoriuscita di Trevor Groth) ha ulteriormente spinto le scelte in quella direzione. Con risultati misti, specialmente nel concorso fiction. Deludente, per esempio, l’anticipatissimo debutto al lungometraggio dell’artista afroamericano Rashid Johnson, un adattamento in chiave contemporanea del classico di Richard Wright, Native Son, su sceneggiatura della drammaturga premio Pulitzer Suzan-Lori Parks e con fotografia del direttore della fotografia di Darren Aronofsky, Matthew Libatique.

Il pedigree e il nervoso, filiforme, co-protagonista di Moonlight, Ashton Sanders, non salvano purtroppo il film che, ad eccezione di alcune brevi sequenze centrali, si arena presto in un pastiche di pretenziosa superficialità. Se Barry Jenkins è una chiara influenza nelle immagini patinate di Rashid Johnson, la filiazione di The Last Black Man in San Francisco arriva senza dubbio dal cinema più cubista di Spike Lee.

UN ALTRO DEBUTTO e, come Native Son, un titolo dell’etichetta indipendente newyorkese A24, il film di Joe Talbot è ispirato dalla biografia di Jimmie Falls (autore del soggetto e protagonista), un ragazzo deciso a rientrare in possesso – anche se si tratta di occuparla abusivamente – della splendida casa vittoriana che fu della sua famiglia, in una specie di Harlem di San Francisco, in cui la presenza black però non esiste più. Ambizioso minikolossal (due ore e più) sull’identità, con lunghi, sognanti passaggi in skateboard, pesci con tre occhi, più i colori primari e un «coro greco» che ricordano Fa’ la cosa giusta, The Last Man è un film curioso, pieno di cuore e vagamente in bilico sull’apocalisse.

SEMPRE IN CONCORSO, e ancora più emotivamente intenso, Honey Boy, della israeliana/americana Alma Har’el, autrice multidisciplinare (documentari, foto, music video, spot pubblicitari..), il cui doc ibrido Bombay Beach ha conquistato l’attenzione di Shia LaBeouf, al punto di affidarle un romanzo di formazione ispirato alla sua biografia. «È strano feticizzare il tuo dolore, e tirarne fuori un prodotto. Ti senti in colpa. Mi sentivo molto egoista…» ha detto LaBeouf al pubblico dopo la prima proiezione del film: unico – pare – oltre che il più giovane, a manifestare disagio nei confronti della voga del «marketing della vittima», un trend culturale che a Sundance 2019 ha dato momenti più consoni a un evento pilotato da Jim e Tammy Baker che a un festival di cinema.

Scritto da questo enfant terrible di grande talento, che oggi ha il volto prematuramente segnato di tormento interiore, Honey Boy (acquistato da Amazon qui a Park City) è la storia di Otis, un bimbo star della tv (Noah Jupe) e del padre, veterano, alcolizzato, ed ex pagliaccio da rodeo (LaBeouf) che gli fa da guardian. Lucas Hedges interpreta Otis «da grande» quando -come LaBeouf- è stato costretto ad entrare in un rehab. Filtrato dallo sguardo sicuro, ravvicinato e molto hip di Har’el (alla fotografia, pastosa, satura, è la brava argentina Natasha Braier), il film comprime realismo e lirismo, abuso e tenerezza, rabbia e redenzione -la sua irrisolta, dolce, tortuosità, le interpretazioni sfumate, e la determinazione di andare oltre (non solo formalmente) allo slancio egocentrico, insoliti in un festival spesso poco sensibile ai chiaroscuri.

È una mancanza di sensibilità , quella di certa scena indie Usa, che si è registrata, per esempio, nelle reazioni perlopiù negative che hanno accolto il finale «ambiguo» di un altro film interessante – e che lavora controtendenza rispetto al tema dell’abuso – in concorso: Share, della regista Pippa Bianco, in cui una teen ager (Rhianne Barreto) lotta per ricostruire cosa le è successo in una notte brava di cui non si ricorda nulla mai i cui frammenti appaiono in un video online che diventa viral.

ANCORA nella competizione drammatica, spicca – fuori dai grandi temi portanti della razza e del gender – The Sound of Silence, di Michael Tyburski, elaborato da un corto premiato a Sundance 2013. Strano, malinconico, pittorico, ispirato dallo sterminato paesaggio sonoro di New York, la storia di uno scienziato (Peter Sarsgaard) che «accorda» appartamenti.