È la mattina del 28 gennaio 1986. Dalla base di Cape Canaveral, lo shuttle Challenger, dopo varie proroghe, viene lanciato nello spazio. Sulla missione STS-51-L viaggiano 7 astronauti. Per l’America di Reagan è l’occasione d’oro per confermare la sua potenza economica e tecnologica e avvallare così le politiche liberali che sta imponendo anche in Europa. Dopo 73 secondi dal decollo, il razzo esplode, di fronte agli occhi Il valenziano Guillém López raccoglie il simbolo dello Shuttle, il significato di quell’esplosione e costruisce un romanzo vortice, una nebulosa di storie che risucchia il lettore nel movimento caotico dell’esistenza. Il romanzo, con le illustrazioni di Sonny Partipilo, va ad arricchire la collana di narrativa Atropo, di Eris Edizioni, nell’accurata traduzione di Francesca Bianchi che sa rendere la complessità, l’ironia e la grandezza dell’originale.

Abbiamo conversato con l’autore in vista dell’uscita del libro, il prossimo 24 aprile.

Il lancio del Challenger è lo sfondo dove si articolano 73 capitoli, nei quali racconti “molte cose” che successero quella mattina. Allora avevi 11 anni: eri seduto davanti alla televisione?

Non lo so. Immagino di sì, ma non saprei dire fino a che punto certi ricordi sono miei, e quali ho incorporato nella mia memoria a posteriori. Qualcuno mi ha raccontato che in Spagna nel pomeriggio le trasmissioni vennero interrotte per emettere un bollettino informativo dell’ultima ora con le immagini dell’incidente. È possibile che in quel momento stessi guardando la televisione. La cosa importante è che quel fatto tragico diventò così parte del subcosciente collettivo e della cultura popolare. La mia strategia narrativa in questo romanzo è stata quella di partire da un confronto: opporre la verità assoluta- l’incidente dello shuttle- all’avvenimento fantastico e inatteso, per mettere in discussione la realtà e suscitare un senso di meraviglia. La combinazione ha funzionato perfettamente.

In ogni caso, è stato colpo di fulmine e hai sentito che volevi raccontare questa storia? O è successo il contrario, e la vicenda del Challenger è servita come catalizzatore, un evento centrale attorno al quale un gruppo di narrazioni già ideate?

No, si è trattato di un colpo di fulmine. Erano molti anni che l’immagine dello shuttle mi ossessionava. In qualche modo sapevo che da lì sarebbe dovuta uscire una storia perché era un’immagine molto potente e simbolica sotto moltissimi aspetti. Il programma spaziale del governo Reagan, la sua iniziativa Teachers in Space, il momento d’oro che il capitalismo viveva in quegli anni, a livello mondiale; e ancora, il sogno americano resuscitato, oltre che ovviamente la grande allegoria generata dal fatto di inviare un gruppo di uomini e donne nello spazio esteriore… tantissimi elementi per altrettante possibilità; avevo il messaggio, c’era solo da trovare la forma. E questa arrivò con la possibilità di rappresentare una moltitudine di realtà e il caos dell’esistenza. L’effetto ipnotico nel lettore, come quello di un caleidoscopio letterario.

L’elemento temporale è legato indissolubilmente a qualsiasi narrazione e alla maggior parte delle sperimentazioni letterarie della modernità. Negli avvenimenti del Challenger, il tempo gioca un ruolo fondamentale e non a caso ogni capitolo porta un’annotazione temporale nel titolo. In questo senso, come hai costruito il romanzo?

Challenger funziona come una rete, in apparenza aleatoria, di storie intessute tra loro. Volevo rappresentare il caos dell’esistenza, l’assenza di mete, dall’inizio alla fine. E tuttavia il grande inganno della letteratura è, a ragione, il contrario: porre un inizio e una soluzione. È stato difficile costruire una rete caotica, di difficile comprensione (visto che non possiamo abbracciare tutta la realtà dal nostro punto di vista) ma che conservasse un senso, e dove il lettore potesse riconoscere una ragion d’essere, una causalità, senza per questo dimenticarsi del caso nella quotidianità e della fragile barriera che ci separa dall’abisso.

La storia si svolge in uno spazio “ultra”: ogni episodio accade intorno al Challenger e tutta l’azione sembra straripare verso l’alto, che è dove si dirige l’ambizione umana, e allo stesso tempo verso il basso, nelle stesse viscere della terra, dove vivono i mostri. Questo genera un movimento centrifugo, una specie di spirale che in fondo è l’impalcatura stessa del romanzo, non credi?

Sì, il romanzo funziona come un decollo: si eleva, prende quota e termina con un scoppio di fuochi artificiali. In questo senso ogni piccola porzione è un Challenger a sé stante, perché in fondo, il romanzo parla della sconfitta, individuale e collettiva. Bisogna ricordare che in quel momento, verso metà degli anni ’80, eravamo immersi in una specie di euforia collettiva, il liberalismo rampante si imponeva nella sfera economica, ma anche in quella sociale. L’incidente del Challenger fu un punto di inflessione. Dopo altri due incidenti durante il lancio di satelliti, il programma della NASA e gli shuttle rimasero paralizzati per quasi 3 anni. E che succedeva alla gente comune? Cosa succede a tutti i personaggi anonimi, cosa succede nella loro quotidianità? Quando rivolge lo sguardo a loro, il romanzo mostra la sconfitta quotidiana ed è proprio lì che si insinua l’elemento fantastico, come una fessura in ciò che probabile, plausibile, che produce una catarsi di fronte all’inatteso.

Una delle caratteristiche che rendono grande il tuo romanzo è che riesci a mantenere per 400 pagine l’equilibrio sottile tra una forma ricca e dettagliata e i codici ben visibili dei diversi generi ai quali si richiama ogni episodio. È lo stesso equilibrio che esiste tra lo scrittore che sei e la tua formazione letteraria e cinematografica?

Si è trattato fondamentalmente di divertimento, puro e duro. E anche di una sfida. Quando ho concepito il romanzo ho deciso di non pormi limiti, perché Challenger doveva essere libero: avrebbe potuto contenere elementi del romanzo fantastico urbano, o del romanzo noir, o di quello sociale; del genere romantico, weird, pulp o metafisico. Così ho iniziato a sviluppare molte idee, alcune completamente folli, mentre continuavo a dirmi «perché no?». Ho provato molte storie e ne ho scartate altrettante fino a trovare quelle che si inserivano nella struttura, formando un tutto coerente e coeso.

Molti diranno che la tua scrittura abbonda di citazioni e riferimenti: io piuttosto credo che lasci scivolare nel testo elementi di atmosfere che conosci bene e che i lettori della nostra generazione non possono non notare. In questo senso ti inserisci perfettamente nel gusto per gli anni ’80 che va molto di moda negli ultimi tempi. Cosa pensi di questo recupero?

Più che di un recupero si tratta di vero e proprio revisionismo. Personalmente credo che la decade degli ’80 fu abbastanza mediocre e stereotipata: edulcoriamo il passato per paura di affrontare il presente e così ci scordiamo della Thatcher e dei conflitti operai in Gran Bretagna, di Reagan che imponeva la sua visione e lo stile di vita americano nel mondo, importandolo con MTV; scordiamo del boicottaggio dei governi popolari in Latino America, così come della cultura del successo. Io però non avevo intenzione di affrontare una denuncia esplicita, ma di proporre un ritratto intimista: per farlo mi erano sufficienti solo pochi dettagli, perché in fondo portiamo il bagaglio culturale di quell’epoca, con i suoi clichés e pregiudizi, e questo in parte è ciò che rende reale un romanzo: è reale perché noi crediamo che sia così; ci hanno detto che fu così.

Tra gli effetti cinematografici del tuo romanzo, c’è molta luce. È quella di un Dio spettatore?

Mi piace pensare che se esiste un Dio questo sia il lettore. Un Dio curioso che osserva senza intervenire. Anche se, come insegna la fisica quantica, l’esistenza di un osservatore altera ciò che è osservato, così iniziare a leggere Challenger è sorprendersi e scoprire un nuovo mondo. In questo mondo ci sono persone, ma anche mostri, fantasmi del passato, alieni e personaggi assenti dai romanzi convenzionali. Ogni punto di vista è determinante in un mondo così fragile come il nostro.

Il Challenger è simbolo del desiderio di superamento tipico dell’uomo, ma allo stesso tempo contempli e analizzi la nostra tendenza alla distruzione, la nostra certa inclinazione verso l’abisso. Come si lavora questa tensione insita all’umano nel genere fantascientifico?

Esiste un certo equilibrio tra Eros e Tanathos, tra il piacere e il dolore. La morale, la legge, la sopravvivenza, il sesso, le varie –filie e –fobie ci spingono o ci portano da un lato all’altro di una dimensione sconosciuta che è la nostra vita. In Challenger la fantascienza è un’impostazione, ma le tensioni drammatiche sono quelle proprie dell’umanità.

Hai mai pensato di raccontare ciò che successe dentro al Challenger, per esempio in 73 parole?

(Ride) No, non ci avevo mai pensato. Sarebbe una sfida interessante, ma preferisco lasciar spazio all’immaginazione. Talvolta è meglio non riempire la narrazione e lasciare dei buchi, spazi in cui i lettori possano liberare la loro immaginazione; non c’è niente meglio di questo.