«Una minoranza fanatica, violenta, oscurantista e razzista sta gradualmente appropriandosi delle politiche dello Stato di Israele. Quella minoranza lo sta trascinando in un abisso morale». Fin qui il nostro silenzio ha permesso che le cose andassero così: «abbiamo permesso che ci fosse il fascismo. Pensare che non era questo l’ideale (…) Non era per questo che lo Stato ebraico è stato fondato. Non per bruciare i bambini nel sonno». Ora è venuto il momento di reagire, «prima di abituarci a questo orrore. Prima che sia rimpiazzato da un altro orrore».

All’indomani della tragedia che ha fatto da detonatore per la ripresa della violenza che oggi miete quotidianamente vittime israeliane e palestinesi, l’attentato compiuto lo scorso luglio in Cisgiordania da parte di un gruppo di estremisti ebrei e costato la vita a un bambino arabo di soli 18 mesi e a suo padre, Eshkol Nevo aveva lanciato un appello rimasto pressoché inascoltato nel suo paese. Dalle colonne di Yedioth Ahronoth, il quotidiano più diffuso in Israele, lo scrittore aveva auspicato un sussulto democratico della società israeliana, indicando i responsabili del peggioramento della situazione negli estremisti religiosi, nel «terrorismo ebraico», ma anche in un «primo ministro (Netanyahu), tanto preoccupato dell’Iran che non si è accorto che la casa brucia».

Quarantaquattro anni, nipote di uno dei premier laburisti degli anni Sessanta, un passato da pubblicitario, Nevo è considerato, insieme soprattutto a Etgar Keret, tra gli esponenti principali di quella nuova generazione della letteratura israeliana che affronta senza tabù il conflitto che divide il paese ed è anche in grado di dare voce alle vicende politiche e personali dei palestinesi.

Un percorso, caratterizzato dalla ricerca di una convivenza e di una pace giusta, che lo scrittore ha scandito attraverso un pugno di romanzi che affrontano la storia ma anche i sogni e le contraddizioni degli abitanti di questa terra insanguinata: da Nostalgia (2005) a La simmetria dei desideri (2010), fino a Neuland (2012) e al recente Soli e perduti (pp. 264, euro 17,50), tutti pubblicati da Neri Pozza.

La strage compiuta dagli estremisti ebraici che le ha ispirato un appello molto duro nei confronti dei suoi concittadini, ha dato il via ad una serie di violenze sempre più efferate in ambo i campi: dove sta andando Israele?
Il futuro del mio paese, che oggi vedo minacciato come non mai, può andare in due direzioni: verso una pace giusta o verso una continua escalation della violenza, come sta accadendo in questi giorni terribili dominati dalla paura e dall’angoscia. Quale strada prendere dipende certo anche dalle due società, come spiegavo in quel testo, ma prima di tutto dalle loro rispettive leadership politiche. E, in questo senso, quella israeliana non sta lavorando affatto nella direzione giusta. Serve grande coraggio, determinazione e anche creatività per uscire dal circolo di sangue in cui siamo tutti imprigionati ormai da troppo tempo e il governo non mostra di avere alcuna di queste qualità.

Amos Gitai ha dedicato un film all’assassinio del premier Rabin, ucciso nel 1995 da un estremista contrario agli accordi di pace con i palestinesi; una ferita ancora aperta, di cui lei si è occupato in «Nostalgia». Quanto pesa oggi la minaccia dell’estrema destra religiosa?
Prima della nuova esplosione di violenza, questa minaccia era al centro del dibattito pubblico in Israele, soprattutto dopo l’uccisione del bambino a Duma, ed era considerata da molti, me compreso, come una delle maggiori priorità del paese. In questi anni è infatti cresciuto tra gli ebrei il numero di coloro che compiono azioni terribili cercando di giustificare il loro operato in nome della fede: anche se in realtà si tratta di atti, e ci tengo molto a sottolinearlo, che sono inaccettabili proprio da un punto di vista strettamente ebraico. Detto ciò, non tutti gli ambienti religiosi sono uguali. In alcuni si è trovata la forza per allontanare gli estremisti e i violenti. Il punto è che buona parte della responsabilità di questa situazione è della leadership religiosa del paese, il rabbinato, che non interviene per fermare le violenze. Allo stesso modo, specie in questo momento in cui lo scontro ha per epicentro i luoghi sacri di Gerusalemme, anche tra i palestinesi mi sembra prevalgano le posizioni di chi, come Hamas, cerca di legittimare il proprio odio attraverso la religione.

Lei sostiene le ragioni della pace, intervenendo spesso in questo senso dalle pagine dei giornali, è un impegno che coinvolge anche il suo lavoro di scrittore?
Direi moltissimo. Con una collega dell’università di Tel Aviv ho dato vita ad una scuola di scrittura creativa a Jaffa che è frequentata sia da studenti ebrei che arabi. Malgrado le tensioni esterne, nella scuola non c’è alcun tipo di contrasto, ma c’è invece attenzione reciproca e complicità. Nei miei romanzi, inoltre, cerco di costruire dei personaggi che aiutino a superare gli stereotipi imperanti sulla figura dell’«altro», dando in particolare spessore umano, sentimenti e carattere propri a figure che altrimenti resterebbero imprigionate nella narrazione del conflitto, che non potrebbero essere altro che «nemici». Così, ad esempio, in Soli e perduti, l’ornitologo arabo Naim finisce addirittura per incarnare la figura dell’ebreo errante alla fine del libro, mentre in Nostalgia, attraverso la figura del muratore palestinese Saddiq racconto il dolore e la memoria della Naqba, l’esilio cui molti arabi furono costretti dopo il 1948.

Non si può dire che queste scelte abbiano però fatto l’unanimità in Israele, lei è stato spesso contestato da destra. Come è andata?
Sì, è vero, ci sono state molte polemiche e anche reazioni di rabbia nei miei confronti, comprese telefonate e mail di minaccia, come accade ogni qual volta si cerchi di raccontare anche dei palestinesi, della loro storia e delle loro vite. Anche se devo confessare che sono convinto che questo ruolo di ponte, di spazio aperto dove poter scrivere finalmente qualcosa di comune ai due popoli, possa essere svolto meglio dalla letteratura che dai media o dalla politica.
Perciò, ogni volta che, al contrario i miei lettori si sono emozionati mentre leggevano una pagina dedicata a qualcuno che percepivano come un «nemico», fino a immedesimarsi in lui, posso dire di aver contribuito con i miei pochi mezzi a far cambiare le cose. Solo in quei casi, come scrittore, sento di aver fatto davvero bene il mio lavoro.