Dopo la sfortunata vicenda editoriale toccata al suo capolavoro Sister Carrie (1900), ritirato (e poi epurato) dal mercato editoriale, più o meno il giorno della sua pubblicazione, perché offensivo alla morale pubblica, Theodore Dreiser tace per dieci anni, fino all’uscita di Jennie Gerhardt (1911), un altro non meno censurato ritratto di giovane donna perduta, dopo il quale decide di cambiare rotta per immergersi, anche grazie ai risultati della sua attività di giornalista, nella rappresentazione della scalata del mondo corrotto della finanza nel sistema economico americano che, sino a metà Ottocento, risultava non ancora irrimediabilmente compromesso. Dalle ricerche (documentate) e dalle osservazioni di prima mano all’interno dei gangli di questo sistema che allora spostava il suo baricentro dall’Est alla neonata Chicago (1871), e alle sue nuove opportunità, Dreiser dà vita a un trittico poderoso, la Trilogia del desiderio, se «desiderio» si può definire il facile arricchirsi a scapito di molti.
Nono figlio di immigrati tedeschi cattolici, durante l’adolescenza, passata in piccoli insediamenti urbani dell’Indiana, Dreiser conobbe fame e privazioni, un fardello che lo spinse a considerare l’importanza che – a certi livelli – il denaro e la personalità di chi sapeva conquistarlo e maneggiarlo, andava acquisendo nella topografia sociale americana. Gravi fatti pubblici, contribuirono a circoscrivere il suo obiettivo quando egli scelse di fare dell’escalation capitalista materia narrativa. Furono i cosiddetti «panici» fallimentari (spesso pilotati) che si succedettero in modo sempre più disastroso subito dopo la Guerra civile. Tra i più influenti: il panico del 1873, quello del 1896 (descritto da Dreiser con dettagli tecnici in Il titano), e infine, il più grave, del 1907. Alle spalle delle perdite per i piccoli risparmiatori ci furono le sanatorie e le responsabilità dei grandi magnati dell’industria e delle ferrovie: i Morgan, i Rockefeller e altri.
La legge del più forte
Gestita nei modi del determinismo sociale alla Herbert Spencer e della legge del più forte, la scalata plutocratica del protagonista della trilogia, Frank Cowperwood, inizia con Il finanziere (1912), il primo romanzo della serie, continua con Il titano e termina con l’incompiuto e postumo Lo stoico (’47), tutti già tradotti in italiano. L’editore Mattioli 1885 ha adesso deciso di riproporre, almeno in parte, il coraggioso affresco ricostruito da Dreiser con una nuova traduzione di Il titano (a cura di Livio Crescenzi, pp. 660, euro 22,00), perché, si dice nel blurb, «riletto oggi, il romanzo acquista una sorprendente carica di attualità».
La storia di un affarista senza scrupoli riprende in medias res, ovvero con l’uscita di Cowperwood – nel Finanziere piccolo faccendiere, bancarottiere, sposato e con due figli – dalla prigione di Filadelfia, dove ha scontato una pena tutto sommato lieve rispetto alla gravità delle sue azioni (speculazioni su denaro pubblico), ben intenzionato a ricominciare tutto daccapo. Egli è uomo di pasta dura, deciso a non mollare il premio che i tempi favorevoli promettono a chi accetta il rischio nella gara: «la debolezza – sostiene – è il solo delitto dell’individuo». La prima occasione gli porta fortuna: «Sarebbe inutile star qui a raccontare come avvenne che, una seconda ondata di panico in borsa, a seguito di un enorme fallimento – quello della Jay Cooke & C. – gli aveva permesso di ritrovarsi di nuovo tra le mani un grosso patrimonio e come questa rinnovata ricchezza lo avesse alquanto placato. Sembrava proprio che al destino stesse particolarmente a cuore il suo personale benessere. Comunque sia, non ne poteva più della borsa come mezzo per arricchirsi, e a quel punto decise d’abbandonare per sempre quell’attività. Si sarebbe messo a fare qualche altra cosa – ferrovie, compra-vendita di immobili, o un’altra di quelle sconfinate opportunità».
Con tali prospettive l’aristocratica Filadelfia, città di antiche consuetudini e vecchia ricchezza, non fa più per lui e, ripetendo – deteriorandolo – un vecchio mito americano, ora Cowperwood guarda a Ovest. Per esprimere al meglio la sua volontà di uomo di potere e i suoi progetti di titanismo economico ha bisogno di un terreno ancora vergine. Eccolo dunque puntare il desiderio sulla nascente Chicago, verso la quale si mette subito in viaggio su quelle carrozze ferroviarie, monopolio di George Pullman, di cui seguirà l’esempio quando, giunto a Chicago, dopo aver tastato altre fonti di guadagno (l’introduzione del gas nel sistema urbano), cercherà la sua strada nel campo delle ferrovie tranviarie, ottenendone il controllo in breve tempo con mosse azzardose, suscitando, persino nella rampante e spregiudicata promettente metropoli del West, mormorii moralistici.
Oggetto del desiderio
È Chicago il vero oggetto del desiderio di Cowperwood, il «magnete» che aveva attratto anche Carrie Meeber, un’altra che non si conformerà alla contro-legge del più debole, perché negli ultimi decenni dell’Ottocento a Chicago tutto era da creare. Al suo arrivo Cowperwood la vede visionariamente come una futura «Firenze dell’Ovest» in attesa del suo Pigmalione, una promessa acerba eppure così predisposta a farsi plasmare che oggetto del desiderio e il suo contemplatore si riflettono in una simbiosi resa ironicamente in turgide immagini barocche: «Questa città fiammeggiante e inquieta, così tutt’America, questa sorta di poeta vestito di pelle di daino come un mandriano, questo titano così rude e rozzo, questa città esplosiva. Adagiata in riva al suo lago luccicante, regina di stracci e di toppe, una bifolca che ozia e parla a vanvera, la bocca piena di chiacchiere epiche, una vagabonda, una clandestina morta di fame tra le città, in testa la forza e l’energia di Cesare e nell’anima la forza drammatica d’Euripide. Un autentico bardo delle città, ecco cos’era, che cantava di grandi gesta e di enormi speranze, e i cui pesanti scarponi affondavano nel fango delle circostanze». Talvolta, Dreiser si lascia andare nel suo trasporto epico, ma Chicago per lui fu davvero la sua musa più grande, nonostante questo omaggio, in fondo, non le fa giustizia, anche se è quello che serve per far emergere la volontà esaltata dell’aspirante superuomo.
Nel disegnare la spietata scalata del suo titano, un tipico robber baron, e della sua città eletta, Dreiser non inventa nulla, se non l’afflato epico. Molto semplicemente, egli si limita a romanzare la carriera di un uomo ben noto ai suoi tempi, il magnate Charles Tyson Yerkes, ricostruendola con ricerche di prima mano negli archivi dei giornali. Ne studierà la criminosa attività finanziaria a Filadelfia, la bancarotta, le connivenze con il potere politico, l’ascesa a Chicago nel cantiere della mobilità pubblica (a lui si deve, tra l’altro, il famoso Loop), la vita privata, gli amori (denaro e sessualità in Dreiser sono sempre quasi animalescamente connessi), i divorzi (ancora oggetto di scandalo a quei tempi) e i suoi investimenti nel mercato dell’arte (Rodin, Gérôme, la scuola di Barbizon), uno stemma di nobiltà a tamponare la volgarità materialistica. Dopo aver esaurito le risorse che Chicago offriva, Dreiser segue infine Yerkes a Londra, dove, alla sua morte nel 1905, lasciò incompiuto il progetto della costruzione della metropolitana.
Frank Cowperwood ne è un ritratto fedele, delineante tuttavia una diffusa tipologia nella seconda metà dell’Ottocento, quella dei nuovi ricchi di cui troviamo tracce solide nei romanzi europei di Henry James, il quale ci dà la facciata più evoluta, sebbene non sempre depurata delle basse istintività di partenza, di un’America arricchitasi in fretta al costo della sua passata innocenza. Se in James il sapore di fondo resta quello della volgarità, trent’anni dopo in Dreiser quel sapore si volgerà in amaro quando darà la luce a Una tragedia americana (1925), l’altro suo capolavoro sui risvolti più crudeli e illusòri del sogno americano.