A terra, sulla sinistra in ombra, c’è un mucchio di pezzi di stoffa. Brandelli informi, affastellati, come nella Venere degli stracci di Pistoletto. Accanto alle stoffe, però, non c’è alcuna statua, solo si erge mezza chiusa una bandiera. È il quadro iniziale di Furia, spettacolo ruvido e regale nel raccontarci povertà e violenza, bellezza e capacità di tornare in piedi, autrice la coreografa brasiliana Lia Rodrigues, un titolo che non si dimentica facilmente, presentato in esclusiva nazionale all’Auditorium Parco della Musica dal Festival RomaEuropa.
Artista associata al Théâtre National de Chaillot di Parigi, trent’anni di compagnia l’anno prossimo, Rodrigues fu una delle prime interpreti nel 1982 di May B di Maguy Marin che qualche anno fa le ha dato la possibilità di rimontare in Brasile quello storico spettacolo. Condividono, Maguy e Lia, una visione dell’arte non disgiunta dall’impegno sociale e politico. Trasferita a Rio de Janeiro dall’Europa nel 1990, Rodrigues sceglie nel 2004 di trasferire la sua attività nella favela di Maré: vi ha fondato con i suoi collaboratori un Centro d’arte frequentato da centinaia di studenti, da cui sono usciti anche molti dei suoi danzatori, un progetto culturale di formazione e relazione sganciato da barriere elitarie.

ED ECCO, quindi, Furia. Gli stracci sulla sinistra della scena sono agitati da un moto interno, lento, brulicante. Un rumore di strade, frammentato da uno scalpitio, qualche voce, un ritmo ripetuto che soffia, basso, in lontananza. Lo ascoltiamo per 70 minuti, sempre più forte, sempre più alto, prima di ritornare lontano e sparire, un minuto e cinquanta di musica tradizionale della nuova Caledonia, ripetuto all’infinito.

DAL MUCCHIO di stracci escono persone che ne trascinano altre, spingendosi, avanzando sul fondo da sinistra a destra. Una processione di stracci e umanità toccata dalla luce che aumenta. Furia è un motore di emozioni in trasformazione, di volti, di corpi che cambiano in cammino, di uomini e donne che a gruppi o in solitaria ora sono guida, ora sono succubi, in un dialogo con chi guarda pressante. Corpi, volti che procedono verso il pubblico come antiche divinità, scese nel mondo a incarnare il dolore, la fatica, la lotta per sopravvivere. C’è tutto dentro questa lunga parata, regale, focosa, sensuale, piena di dignità. Una parata coreograficamente tutt’altro che di superficie, nella struttura del movimento collettivo e singolo nello spazio, nell’uso del ralenti e dell’ossessione ritmica, tribale, nel groviglio dei corpi che da un disordine apparente si fa in un istante perfettamente sincrono. Figure femminili dipinte d’oro e di blu, uomini e donne scosse nell’intimo da un fremito in cui il sesso è vita, corpi nascosti in sacchi della spazzatura, corpi battuti che risorgono dalla terra con una forza animale, sempre regale.

TUTTO CONTINUA fino al ritorno del silenzio, senza più musica né movimento, con i protagonisti a terra. Furia potrebbe terminare qui, senza la coda parlata dell’unico danzatore che resta in ginocchio. Non servono spiegazioni, né verbo per entrare in relazione. Toccano però i manifesti che i nove interpreti portano in scena negli applausi: uno è contro chi ha ucciso in Brasile l’attivista Marielle Franco.