They Live We Sleep era il titolo dell’opera di Elisabetta Benassi alla Quadriennale del 2008. Una frase incomprensibile all’udito ma leggibile, invece, disegnata dalla disposizione dei trecento megafoni che la propagavano. Come in altri lavori dell’artista romana, la latenza del significato ingenerava uno stato stuporoso, una sorta di sonnambulismo. Capiamo e insieme non capiamo. E forse il vero oggetto del lavoro non è altro che questa sospensione: che corrisponde alla forma della vita che conduciamo.

QUESTO TORPORE è il residuo di un’esistenza alla quale è stato sottratto proprio il sonno: come ci ha mostrato Jonathan Crary (in 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno), eroso dalla «vita in continua e illimitata espansione del capitalismo del XXI secolo». Sicché l’antica metafora del risveglio (da San Paolo a Matrix passando per la Scuola di Francoforte), per il «recupero dell’autenticità», «è ormai inadeguata per un sistema globale che non dorme mai». E rivendicare il diritto al sonno può essere considerata una resistenza, ancorché solo passiva, al «furto di tempo che il sistema capitalistico compie ai nostri danni».

Ma proprio quella del sonno, oggi, è una delle merci più pregiate. È la «mercanzia onirica» di cui parla Lidia Riviello nella sua ultima raccolta poetica, Sonnologie (Edizioni Zona), in cui tutti siamo «clienti» di un mondo dove «una volta si sognava senza produrre». Ed è la cornice di quell’algido e disperato poema narrativo, di infinita ambiguità, che è l’ultimo romanzo di Don DeLillo, Zero K: in cui la merce suprema è appunto un sonno senza tempo, la sospensione criogenica che promette vita eterna agli adepti, tutti ovviamente facoltosissimi, di questa nuova religione che è presentata, anche, come l’arte per eccellenza del nostro tempo.

La medesima ambiguità ha il titolo della nuova mostra di Elisabetta Benassi, Letargo (al Magazzino d’Arte Moderna, a Roma, sino al 28 febbraio), a sei anni di distanza da quell’All I Remember che le ha dato giusta fama, dove retro-immagini della storia del Novecento erano proiettate nella semi-oscurità da un’antiquata macchina per microfilm, con un titolo preso da Derrida, Memorie di cieco. La cecità visionaria dell’artista è la forma che assume il suo lavoro onirico: il prodotto del suo sonno, appunto. E come sempre, in Elisabetta, sono delle macchine a simboleggiare la natura latente, «automatica», di questo lavoro che è il suo.
Autoritratto al lavoro s’intitola appunto ironica, fra le opere esposte in Letargo, una motozappa delle Officine Meccaniche Benassi (un’azienda che produce macchine agricole nei pressi di Ferrara…). Salamandra ZAF è un pannello d’alluminio con infissi marchi di automobili i cui nomi evocano quelli di animali: Falcon, Taurus, Mustang, Jaguar. Spettacolare Quasi Esotico: una palma d’acciaio e resina lunga quasi sette metri, collocata in orizzontale a cavallo di due sale. A dare il titolo alla mostra sono poi due calchi in gesso di gusci di tartaruga in uno strato di terriccio dentro una vecchia auto, donata a Elisabetta da Francesco Clemente.

L’AMBIGUITÀ di Letargo non deriva però solo dalla commistione simulacrale di naturale e artificiale – questa, sin dall’inizio, l’ossessione dell’artista. L’emblema della Palma è ribadito da un altro lavoro, Palmense (vino al posto dell’acqua): una bottiglia d’acqua minerale d’antan che contiene però del vino. La parodia delle Nozze di Cana trasporta Letargo in una significazione religiosa, in cui il simbolo della Palma rinvia alla Resurrezione dei Martiri e al loro trionfo nella vita dopo la morte.
Questa dunque la sorte riservata a chi, come gli animali nella loro cieca saggezza, saprà superare la condizione presente accettando di sprofondare nel Letargo. Nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze si racconta la storia di sette giovani cristiani di Efeso che, per sfuggire alla persecuzione dell’imperatore Decio, si rifugiarono in una caverna dove dormirono per 309 anni, vegliati dal loro cane. Al loro risveglio furono testimoni della Resurrezione, ma subito dopo morirono.

FRA LE OPERE ESPOSTE in Letargo, ce n’è una che pare riassumere tutte queste ambiguità. Sono due accendini sui quali sono incise le scritte Our aim is awakefulness e our enemy is dreamless sleep: le parole d’ordine della Mobilitazione Totale del nostro tempo. Il titolo del lavoro è Casse-Pipe, come quello del libro del ’49 in cui Céline raccontava il suo servizio militare alla vigilia della Grande Guerra. Un’espressione che designa il tirassegno al quale i soldati sono esposti: come pipe di gesso alla casualità del fuoco. Il risveglio dal Letargo, bruciante e luminoso, coincide con la morte; e la nostra stessa vita letargica non è, allora, che una morte a credito. Se così stanno le cose, davvero, meglio restare ciechi.