Osvaldo Sanguigni, che i lettori de il manifesto ricordano come esperto politico dei paesi del blocco dell’est, prima e dopo il crollo del muro di Berlino, con il suo ultimo libro Nel decennio lungo (edizione Slavia, pp. 177) si presenta nella veste di attento osservatore di quanto accade nel nostro paese, in particolare, di quanto è accaduto tra il 2001-2013, il «decennio lungo» che ha visto Silvio Berlusconi al timone di «una nave senza rotta», impegnata ad «attraversare un immenso oceano sconvolto da cataclismi economici e sociali che hanno investito il mondo e, quindi, l’Europa e l’Italia».

Nella sua analisi, Sanguigni assume la crisi economico-finanziaria globale iniziata negli Usa nel 2008 come uno dei fattori determinanti le difficoltà del nostro paese. Tesi fondamentali del suo libro e che il capitalismo ha perduto in maniera «definitiva» la capacità di svilupparsi armonicamente ed è entrato in uno stato di permanente instabilità, imponendo così all’umanità insopportabili sacrifici. Di fronte a questa situazione, anche le principali forze di opposizione, nel corso del «lungo decennio», hanno mostrato di essere prive di progettualità, di un’idea di alternativa al sistema attuale.Il partito democratico già quando era all’opposizione ha dato l’impressione «di voler cancellare del tutto dal suo cuore e dalle menti dei propri iscritti ed elettori ogni pensiero di alternativa». Ora che è al governo adotta una politica in netta continuità con il passato, in particolare con il berlusconismo, essenzialmente redistributiva.

Ripercorrendo il «decennio lungo», l’autore evidenzia le tre grandi emergenze dell’Italia: un’emergenza economica e sociale legata al declino e all’incapacità dei governi, compreso quello Renzi, di risolvere la crisi economica; un’emergenza democratica connessa ai tentativi autoritari di Berlusconi ma non solo; un’emergenza politica aggravata dalla comparsa dell’antipolitica e dalla questione morale. Queste tre emergenze hanno costituito insieme il terreno fertile per la nascita di forti movimenti di protesta e di lotta, che hanno dato vita nel 2011 a quella che l’autore definisce «rivoluzione dolce», le cui aspirazioni di rinnovamento radicale sono state tradite dai governi delle larghe intese.

Nella postfazione, l’autore affronta temi che dovrebbero essere oggetto di grande dibattito nella sinistra, anche di fronte a un nuovo Pd che sembra allontanarsi da essa. Temi come quelli del declino, del superamento delle disuguaglianze, dell’ampliamento della democrazia, della riforma della politica, del conseguimento della piena occupazione e della crescita economica legata a un diverso modello di sviluppo e a una diversa composizione dei consumi. In particolare, si domanda se compito della sinistra sia quello di battersi per il superamento del capitalismo oppure per il suo perfezionamento. A suo giudizio, oggi non esistono le condizioni oggettive per il superamento del capitalismo, poichè «lo stesso incrudimento della lotta di classe che, qua e là, si manifesta nel mondo, ancora non fa emergere forze sociali e politiche in grado di interpretare giustamente la nuova situazione del capitalismo e di porre come attuale la questione del suo superamento». Per questo egli propone come possibile programma minimo riformista, capace di aiutare il movimento di ricerca dell’alternativa, quanto scritto da Rossana Rossanda su il manifesto del 13 dicembre 2011: «colpire la finanza con una tassazione forte, colpire gli alti patrimoni, reintrodurre il controllo dei capitali in direzione opposta alla formula tedesca, ridare fiato agli organismi comunitari, ricondurre la Bce a quelli che dovrebbero essere i suoi fini». L’autore, infine, sembra non scartare per il nostro paese l’ipotesi di una società in cui elementi di socialismo si fondano in modo originale con elementi di capitalismo.

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