Valentino Parlato è stato per antonomasia il suo giornale, che tantissimo gli deve: nel lavoro insostituibile di anni e nella fatica pazzesca per mantenerlo in vita. Impossibile pensare al manifesto senza di lui, che – essendone tra i fondatori e ripetutamente il direttore – l’ha sorretto e amato sempre.

È uno di quei casi di immedesimazione e associazioni immediate, persino simboliche. Tanto per dire, come è difficile pensare al cinema senza Fellini o al rock senza Mick Jagger. E così al «quotidiano comunista» senza quell’uomo minuto e affabile, con la sigaretta in bocca a mo’ di un bel film degli anni settanta.

Un grazie sentito e appassionato, non a caso, è arrivato in modo corale nei riguardi di chi ha contribuito in modo sostanziale a rendere possibile il miracolo laico di un foglio che non ha mai voluto togliere dalla testata la dizione «comunista».

In una conversazione del luglio del 2009 con Marco Pannella, ritrasmessa da radio radicale, la scelta era rivendicata con un cenno abbozzato ma orgoglioso. Un’impresa eroica, che colloca Valentino di diritto nel Pantheon dell’editoria.

Una bottega, disse in un dibattito alla radio Valentino; no, è una boutique rispose un noto direttore. Infatti, il prestigio del quotidiano ha retto e regge nel tempo, malgrado le crisi ripetute e ormai strutturali della carta e della vecchia comunicazione analogica.

Non solo eccellente giornalista, maestro di intere generazioni, riferimento – si parva licet – anche per chi scrive ora qui con commozione profonda. Ma fu pure espressione autentica di quel comunismo italiano critico, messo alla porta dall’ufficialità del Pci nel ’69 (fatte salve le scuse ex post di Alessandro Natta) e tuttavia capace di prefigurare i tratti della crisi: del e nel capitalismo, come si diceva.

Anzi. Parlato era colui che aveva maggiore cultura economica nonché attenzione al mezzogiorno – l’ha ricordato Claudio Riolo – nel magnifico gruppo del manifesto. Parliamo della «mitica» rivista, del quotidiano, per un periodo del soggetto politico. Dialogava con destrezza con gli stimati Federico Caffè e Claudio Napoleoni, con i governatori della Banca d’Italia, con il sistema finanziario. Senza imbarazzi o subalternità, se mai con ironia colta unita a una peculiare durezza gentile.

Non solo. Era un intellettuale poliedrico, aperto alle novità, curioso, rabdomantico, sempre appassionato. Lo si vedeva assai spesso alle assemblee e alle iniziative delle varie componenti della sinistra, pessimista ma non domo. Era interessato, e fino all’ultimo, a contribuire a ritessere un filo conduttore, per non arrendersi.

Una lezione e un monito. Ci rimarranno gli articoli, i saggi, i libri, ivi compresi gli scritti recenti secchi e lucidissimi: sulla parabola calante dell’Europa e della globalizzazione, sulla necessità di voltare pagina e paradigmi interpretativi.

Valentino ci mancherà e ci lascia un vuoto. Ricorderemo le sue battute efficaci e velate di malinconia letteraria. Rimpiangeremo un’intelligenza acuta e innervata su letture e studi serissimi. Negli ultimi periodi aveva avuto diversi acciacchi, ma quel suo corpo segnato da qualche costante acciacco sembrava preservarlo proprio dalle forbici delle Parche, immagine che talvolta lui usava per parlare del «passaggio».

Se n’è andato un dirigente di riferimento, rara specie ormai ridotta ai minimi termini. Saremo più soli, con Delfina, Valentina, Enrico e Matteo.

Perché possa rinascere una figura così, bravissima quanto generosa e disinteressata al potere mediocre, ce ne vorrà. Servirà una resurrezione, quella di una sinistra degna di Valentino.