A Yasser un rene lo hanno preso al Cairo. In cambio ha avuto 3mila dollari, briciole per sopravvivere nella fuga dalla Siria in guerra. Era scappato poco prima da Homs, per ritrovarsi senza soldi in Egitto: «Non avevo denaro, non riuscivo a trovare un lavoro. La mia sola scelta era vendere il rene sinistro. La peggiore decisione della mia vita».

A raccogliere la storia di Yasser è il Syrian Independent Media Group (Simg), ombrello di agenzie indipendenti che raccontano la guerra civile siriana e i suoi effetti: le morti in mare, i bambini schiavi, le donne abusate. E il traffico di organi, un fenomeno che si diffonde pericolosamente sia in Siria che nei paesi di arrivo dei rifugiati. I profughi, disperati, vendono cornee e reni. Dietro stanno reti criminali che operano localmente per trasferire gli organi nel più vasto mercato mondiale.

Difficile dare numeri certi. Hussein Nofal, capo del dipartimento di medicina forense all’Università di Damasco, ci prova: 18-20mila siriani hanno venduto un organo negli ultimi quattro anni. La maggior parte di loro vive nei campi profughi in Libano e Turchia, nelle zone siriane di confine e nelle province di Aleppo e Idlib, dove il territorio è controllato dai gruppi islamisti. I prezzi, aggiunge Nofal, variano: se il rene viene venduto in Turchia, si riescono ad ottenere anche 10mila dollari; in Iraq non più di mille.

A volte è la capitale siriana il centro di smistamento: a Damasco non è raro trovare sui muri poster che invitano a donare organi per curare malati in fin di vita, riporta il Simg. La migliore delle coperture per il mercato nero, difficilmente tracciabile dalle autorità perché per la legge siriana la donazione di organi è del tutto legale. Succede, però, che i trafficanti vengano individuati: circa venti denunce sono finite davanti alle corti di Damasco negli ultimi anni, casi mai visti prima della guerra civile.

Ancora peggiore è la situazione dove non esiste più un’autorità riconosciuta, dove lo Stato si è eclissato: «Un dermatologo mi ha chiesto di vendere gli organi dei prigionieri pro-governativi a Idlib – racconta il dottor, Awran (il nome è inventato) – Diceva che tanto sarebbero stati comunque giustiziati». Il denaro ricavato dalla vendita, aggiunge il medico, sarebbero serviti all’acquisto di equipaggiamento medico e al sostegno dei gruppi armati di opposizione: «La zona in cui lavoravo era controllata dallo Stato Islamico. Lì ho visto molti cadaveri a cui mancavano gli organi interni, soprattutto il fegato e il rene sinistro. Una volta ne ho visto uno a cui mancava la vescica».

L’ennesimo dramma nel dramma: un popolo costretto alla diaspora, sfruttato da trafficanti di uomini e relegato nell’oblio dai governi occidentali. L’assenza di risorse per l’accoglienza e l’astrattezza di una soluzione politica che non sia schiava degli interessi esterni mettono i rifugiati all’angolo, obbligandoli a rischiare la vita e la dignità per sopravvivere alla miseria.

Eppure in Europa, dove le potenze internazionali si incontrano per discutere la questione siriana, non si parla della vita quotidiana dei rifugiati. Il negoziato di Ginevra, in teoria, dovrebbe ripartire dopo il 20 maggio ma le precondizioni continuano a pesare sul dialogo. Per smussarle oggi a Vienna si incontreranno i 17 paesi dell’International Syria Support Group. Capitanati da Stati Uniti e Russia, i governi europei, quelli del Golfo, la Turchia, l’Iran e la Cina sono chiamati a gettare le basi per cessate il fuoco più ampi e stabili e quindi per la discussione sulla transizione politica.

Gli ostacoli restano gli stessi – il futuro del presidente Assad e le opposizioni legittimate a prendere parte al negoziato – così come rimane uguale l’approccio occidentale alla conferenza di pace: dentro i salafiti di Ahrar al-Sham, alleati militari di al Qaeda, e fuori i kurdi di Rojava, di nuovo esclusi dal tavolo di Ginevra.