Nemmeno le scienze sociali risultano immuni dall’eterogenesi dei fini. In particolare quando la pretesa di decostruire e svelare gli aspetti ossificati ed ideologizzati di una teoria finisce per produrre un approccio che non si connota né per un punto di vista chiaro, né per indicare una nuova direzione psicologica, ma accetta pedissequamente, in ultima analisi, i fenomeni che descrive e analizza. L’ultimo lavoro di David Garland, La pena di morte in America (Il Saggiatore, pp. 450), si colloca appieno in questo contesto.

Nella sua esposizione, Garland, adotta un approccio che potremmo definire neo-durkheimiano, cioè legge la pena in relazione al suo impatto sulla coesione sociale, finendo per cadere in un relativismo che rischia di giustificare l’uso della pena capitale (da lui non a caso definita istituzione peculiare) negli Usa. Ne conseguono una svalutazione sia dell’obiettivo iniziale indicato dall’autore, cioè quello di studiare la pena di morte negli Usa dal punto di vista sociologico piuttosto che in un contesto giuridico e morale, sia del poderoso apparato storico-sociologico che mette a disposizione del suo progetto di ricerca.

Da un lato, è difficile non essere d’accordo con Garland, quando sostiene che la peculiarità della pena di morte negli Stati Uniti rappresenta un’istituzione che va al di là dell’organizzazione giuridica e della questione morale. Nell’irrogazione di questa misura, infatti, entrano in gioco svariati meccanismi di produzione di senso, che fanno capo sia alle rappresentazioni che attraversano la società americana, sia i conflitti di classe e di razza. Questi, in particolare nel Sud degli Usa, permettono di collegare l’eccessivo numero di esecuzioni perpetrate a danno degli offenders afroamericani come una filiazione più o meno diretta dei linciaggi che avvenivano fino ai primi anni cinquanta del Novecento.

Su questa cornice si innesta la dimensione localista dell’articolazione dei processi politici negli Stati Uniti.
La pena di morte la commina il procuratore, eletto dal popolo, su indicazione di una giuria popolare. Non si tratterebbe dunque, secondo Garland, di una pena comminata dall’alto, attraverso la quale, secondo lo schema foucaultiano, lo Stato si manifesta in tutta la sua terribile potenza, bensì, di un’istituzione attraverso la quale la partecipazione popolare e l’esercizio dal basso del potere e della giustizia trovano la loro espressione concreta. Qui Garland scivola sulla buccia di banana, finendo per portare la sua posizione né a favore né contro la pena di morte nella direzione di un’apologia più o meno involontaria delle esecuzioni capitali.

Infatti, dall’altro lato, se si tirano in ballo i conflitti di classe e di razza, le mobilitazioni di risorse materiali e simboliche, la definizione del quadro politico che ne consegue, allora bisognerebbe andare dentro questi conflitti, sviscerarli, metterli in risalto e spiegare come e perché rivestono un ruolo primario nel mantenimento della pena di morte in un paese che si auto-attribuisce, almeno dal 1945, la patente di paladino mondiale dei diritti umani. Garland, invece, sceglie la strada più comoda di asetticizzare la comminazione della pena capitale negli Usa, sia sul fronte interno che sul fronte esterno. Sul primo versante, si spinge fin quasi a negare la portata del problema, sottolineando come i detenuti giustiziati rappresentino soltanto un decimo dei condannati e ritornando continuamente sulla «civilizzazione» delle esecuzioni a partire dall’introduzione dell’iniezione letale. Garland però continua a non spiegarsi perché un’esecuzione capitale susciti scandalo e sorvola sulla sovra-rappresentazione razziale dei condannati. Allora preferisce rifugiarsi sul secondo versante, quello del relativismo storico, così da notare che la pena di morte viene approcciata diversamente nei diversi stati Usa, e che il Michigan, nel 1846, fu il primo stato abolizionista, mentre in Europa si giustiziava fino al 1978 (Francia). Problema risolto? Non del tutto.

La pena di morte viene chiesta, secondo l’autore, da una società americana sempre più insicura e afflitta da alti tassi di criminalità, sorvolando sugli aspetti relativi alla costruzione sociale della devianza e all’insicurezza come percezione costruita dagli imprenditori morali, di cui la letteratura scientifica è consapevole almeno da mezzo secolo. In ultima analisi, la pena di morte viene liberata da Garland dalle secche dell’umanitarismo, per essere restituita ad una cornice caratterizzata da un ordine simbolico e materiale autoregolantesi, dove lo Stato produce un aumento della civilizzazione. Un percorso, avrebbe detto Foucault, dalla verità sul potere alla verità al potere.