L’ultima sfida, qualche mese fa, era stata arrivare al Festival di Cannes e ci era riuscito, Terry Gilliam, vincendo la causa sui diritti contro il produttore portoghese Paulo Branco. Prima c’erano stati vent’anni di riprese, set tempestosi, una serie di processi, un ricovero in ospedale, disastri finanziari, le accuse di avere distrutto una antichissima chiesa portoghese: una vera epopea The Man Who Killed Don Quixote, quasi come quella a cui si ispira, il Don Chisciotte di Cervantes e le sue lotte contro i mulini a vento che nell’immaginario collettivo rappresentano battaglie impossibili, spesso destinate a sicuro fallimento

Dn Chisciotte c’est moi? Qualcosa di «donchisciottesco» c’è in effetti nel regista che a differenza del «suo» personaggio è stato però più caparbio ed è riuscito nell’intento di salvare la sua Dulcinea, ovvero il suo film. Quanto poi tutto ciò che è accaduto ha modificato il progetto è impossibile dirlo, il film ne porta le tracce, fino a confondersi con la «realtà», con ciò che ha attraversato il regista, mischiando la cifra visionaria «cervantesca» a quella dell’ex Monty Python, ai suoi mondi paralleli carichi di segni fino allo straripamento – del resto l’insegna iniziale ci avverte che il paesino dove stiamo entrando arroccato in una Spagna, simile all’orizzonte di un western spaghetti si chiama «Sueño», Sogno, lì dove tutto è possibile.

Se poi era questo che cercava tra tante peripezie e mulini a vento il regista di Brazil non lo sapremo mai. La chiamano la «maledizione» del Don Chisciotte (al cinema) che anche Welles – qui citato e omaggiato – ha inseguito per decenni senza compimento, forse perché Don Chisciotte è l’avventura dei «folli e sognatori», gli artisti che non vogliono piegarsi, che non vogliono assecondare i compromessi mettendo da parte la propria immaginazione, che prediligono i risultati scassati, fuori moda, i «fallimenti» e la loro grandezza, che sono un po’ banditi e un po’ spregiudicati. Però Gilliam finisce per andare nel senso opposto, e in questo film-nel film-nel film si avvita all’infinito in una meta-narrazione che molto semina ma mai per costruire un sistema di riferimenti aperto, poesia di malinconica pazzia, capace di guardare al proprio tempo, di lasciarlo scorrere nelle pagine dell’universalità.

C’è un regista (Adam Driver) bloccato dagli attori incapaci, dal produttore senza soldi, lui è in crisi totale di ispirazione, eppure l’immagine di Don Chisciotte l’aveva in mente da quando era un ragazzo, studente di cinema ancora con passione che in quegli stessi posti, dieci anni prima, aveva girato in bianco e nero The Man Who Killed Don Quixote. Così un giorno di particolare impasse prende la moto e va a cercare gli attori di quell’avventura: però non c’è più nessuno, l’esperienza del film ha cambiato le loro vite. Il vecchio protagonista (Jonathan Price), che era un calzolaio, è rimasto intrappolato nella parte di Don Chisciotte; Angelica è diventata un escort, Sancho Panza è morto. Ma il tempo al cinema può andare avanti e indietro, è un tempo di incantesimi e di illusioni. Toby, il regista, diventa Sancho Panza, lui e il suo cavaliere sono due straccioni in fuga che sfidano la sorte, l’inquisizione che perseguita gli arabi o forse sono i poliziotti dei nostri giorni a caccia di migranti.

La linea tra «realtà» e «finzione» si assottiglia: un rogo delle streghe medioevale è vero o sono lampi digitali? Don Chisciotte anima cavalleresca è un poveraccio, nel teatro degli inganni, di una società dello spettacolo dove si deve vendere divertimento non sembra esserci posto per i suoi viaggi sulla luna. L’itinerario – appunto – è chiaro come la necessità di mettere al centro la propria esperienza ma in questo che è il più lineare dei suoi film Gilliam finisce per non guardare oltre se stesso svuotando il racconto delle suo potere. La follia donchisciottesca aveva bisogno di una più grande (e generosa) libertà.