Il cinema di Francesco Dongiovanni, autodidatta classe 1978, custodisce uno sguardo tra i più limpidi di certa produzione audiovisiva italiana contemporanea lontana dalle estetiche normalizzate. Uno sguardo che, allo stesso tempo – perché è qui che avviene il movimento, che sorge la sua muta bellezza, il suo mistero più puro –, diventa gesto intimamente politico, è intendere e praticare il filmare come sotterranea, invisibile riscrittura. Densamente spopolata è la felicità, Elegie dall’inizio del mondo (Uomini e alberi è al momento il primo atto di una ricerca che comprenderà quasi sicuramente altri due episodi), Giano e, ora, Anapeson. Scritto dal regista insieme a Marco Cardetta, con produzione esecutiva della loro Murex Production nell’ambito del “Progetto memoria 2014” dell’Apulia Film Commission, sarà presentato al Torino Film Festival con la prima proiezione mercoledì 25 novembre, in concorso nella sezione “Italiana.Corti” (mentre un altro documentario nato all’interno dello stesso Progetto Memoria, Il successore di Mattia Epifani, sulla figura di Vito Alfieri Fontana, ex produttore di mine antiuomo diventato sminatore, sarà in “Doc/Italiana.Doc”).

«Il titolo Anapeson – racconta Dongiovanni – richiama l’iconografia ortodossa del Cristo Bambino, che non può dormire, non può chiudere del tutto gli occhi, perché sa chi è e che morirà». Un Cristo scoperto in una cripta, su un affresco consumato. «Anche i luoghi che ho filmato sono consapevoli della loro morte, perché hanno perso la loro funzionalità, sono rovine dimenticate, ma che sento e percepisco come organismi ancora vivi, sono spazi biologici, cellulari. Ogni inquadratura è nutrita da tutto questo». Il luogo anapeson è il cosiddetto “Casino del Duca”, un antico maniero oggi abbandonato dall’Uomo e dalla Storia nella zona di San Basilio, nei pressi di Taranto, ma un tempo ricca tenuta della stirpe latifondista dei Caracciolo di Martina. Un luogo che nel 1789, attraversando il Sud, il botanico e nobile svizzero Carl Ulysses von Salis-Marschlins visitò, ospite del Conte Francesco III Caracciolo, raccontandone in seguito nel libro Viaggio nel Regno di Napoli (1793) la gentilezza e la generosità che ricevette, la bellezza degli animali e i metodi agricoli innovativi che poté osservare. Raccontando il suo incanto. E da quelle pagine arrivano le parole che penetrano dolcemente (e poi si dissolvono, diventano silenzio) nella tessitura d’immagini del film dalla voce dell’attore Salvatore Marci, presenza di un corpo lontano, come un puntino, nella forma fantasmatica e sospesa di quest’opera, 38 minuti tra il diario e il saggio, tra la Natura e la Storia, nel contrasto tra il passato e il presente. La parola ha la capacità di dare sostanza a un film parallelo, fuori campo, generato da un altro tempo e che si posa sull’altro, duetta in contrappunto con le immagini che restano. Antico splendore sussurrato, vagheggiato e implacabile presente devastazione, in un cinema che non può dare catarsi, che non la cerca, interrogando semmai l’ipotesi e le tracce di una verità remota, profonda. «In effetti – continua Dongiovanni – Anapeson si svolge su un doppio livello ed ho introdotto per la prima volta la parola in un mio lavoro. Nelle opere precedenti non c’era e non esisteva neanche una narrazione, non in senso tradizionale almeno. Ma qui ciò che mi interessava era che il testo incarnasse l’immagine». Ed è quello che accade soprattutto quando si insinua in brani di architettura decaduta, s’inerpica su scale smangiate, ferite di muri, croste d’intonaco, crepe saldo dominio di rampicanti.

La mappatura di questo luogo addormentato è un film fatto anche di carte topografiche e illustrazioni di animali, documenti d’archivio come altro corpo cromatico di un Tempo che dentro l’erosione di stanze e di vite, di umanità passate, continua a respirare, a svolgersi nella natura circostante, nelle sue forme e nei suoi colori, nei suoi suoni, mentre «un altro elemento sonoro è quello umano, ma di un’umanità meccanizzata, una presenza che si percepisce e che il finale, come una quinta rimasta chiusa che poi apriamo, in qualche modo svela». E c’è, soprattutto, la consapevolezza di quei luoghi: «Sono totalmente d’accordo – conclude il regista – con le parole di Straub quando, per marcare la distanza dei suoi lavori con Danièle Huillet da molto altro cinema, descrive una certa categoria di registi come “paracadutisti”, come fiondati da qualche parte all’improvviso a filmare luoghi senza viverli davvero, con una macchina “da preda” anziché da presa. Per me è essenziale conoscere: sono spazi che primo abito o ho abitato per tanto tempo, filmarli è il gesto finale, qualcosa che arriva dopo. E anche per Anapeson ho camminato molto, ho esplorato,non riesco a non vivere i miei film anche sul mio corpo, come qualcosa di sfiancante, di fisico. Sono nato, del resto, in una famiglia contadina, ho subito quindi molto presto il fascino di masserie e trulli abbandonati che scoprivo durante le passeggiate con mio padre. Pertanto il mio non può essere uno sguardo “scientifico”, per me le immagini sono sempre qualcosa di personale, di sentimentale, ci sono un’emotività e un’ideologia anche se non le esibisco; è la nostalgia e l’appartenenza a quei luoghi e a ciò che significano, a quella pasoliniana società precapitalistica di Elegie dall’inizio del mondo che è stata annullata, distrutta dalla modernità».